A cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano
È indispensabile ragionare sugli obiettivi che i terroristi si sono posti: su quali regimi li hanno aiutati, a cominciare dall’Iran, sulle connessioni che questa situazione ha nell’intero scenario mediorientale, anche perché la guerra potrebbe presto avere altri fronti, dal Libano alla Cisgiordania. L’ipotesi è che ci sia una linea che da Gaza passa per Hezbollah in Libano e arriva fino in Iran: un fronte che vuole fermare il dialogo in corso tra Israele e Arabia Saudita, auspice la diplomazia americana, il cui esito positivo rappresenterebbe una svolta storica in Medio Oriente. E chi ha più interesse a ridimensionare il potere di Riyad se non Teheran, il cui compiacimento verso l’attacco di Hamas testimonia, ammesso che ce ne fosse bisogno, del ruolo giocato dall’Iran in questa drammatica vicenda. D’altra parte, la dimensione dell’azione terroristica dell’organizzazione che ha soppiantato l’Autorità Nazionale Palestinese è tale da richiedere una enorme capacità finanziaria, militare (mezzi e formazione), logistica e di intelligence che nell’area poteva darle solo l’ayatollah Ali Khamenei. Certo, gli stessi israeliani hanno escluso una partecipazione diretta di Teheran nella pianificazione della strage, ma questo può essere ricondotto alla necessità di Tel Aviv di evitare di aprire ora un fronte impegnativo, mentre è in corso l’operazione a Gaza. Inoltre, è evidente che l’errore politico-diplomatico commesso a suo tempo dagli Stati Uniti di provare ad estendere gli “Accordi di Abramo” da Emirati Arabi e Bahrain all’Arabia Saudita senza coinvolgere i palestinesi, ha indotto Hamas a credere di non poter più contare sul sostegno di Bin Salman e di conseguenza a cercare alleati persino tra gli odiati sciiti iraniani, abbattendo i vecchi muri ideologico-religiosi che la loro fede sunnita aveva costruito.
Il ragionamento politico porta poi a domandarsi se esistano relazioni, e quali, con lo scenario di guerra ucraino, ricordandoci che Mosca è alleata dell’Iran – è noto che il regime khomeinista ha fornito alla Russia i droni Shahed per la guerra in Ucraina – e ha una forte presenza in diversi stati arabi, e partendo dal presupposto che quello scatenato da Putin non è un conflitto locale, ma, come dimostra la penetrazione anche militare russa (la famosa Wagner) in Africa, un tentativo di destabilizzazione su larga scala. Peraltro, l’interesse di Putin nei confronti del terrorismo di Hamas, che il Cremlino si è furbescamente ben guardato dall’applaudire, è di facile lettura: far passare in secondo piano la situazione ucraina e distogliere risorse economiche e militari dell’Occidente, che in questo momento deve stare vicino a Tel Aviv. Non è un caso che, nonostante a suo tempo Netanyahu non abbia brillato per vicinanza a Kiev, il presidente ucraino Zelensky abbia espresso l’intenzione di recarsi in visita in Israele per mostrare solidarietà al paese attaccato non diversamente dal suo, anche se da altra mano. Non so se sia vera l’indiscrezione secondo la quale in un vertice Nato si sarebbe parlato di un diretto coinvolgimento dei mercenari della Wagner nella preparazione dell’attacco di Hamas, ma tenderei a considerarla verosimile.
Detto questo, oggi è indispensabile interrogarsi sulla portata della risposta di Israele. E in questa chiave comprendo l’appello rivolto da Emma Bonino al governo israeliano di avere la forza morale di non commettere un crimine di guerra pari a quello subito, o addirittura peggiore. Capisco, ma credo che andrebbe chiesta loro un’altra cosa: di mostrarsi intelligenti e sforzarsi di ragionare. Se è vero, come è vero, che Hamas ha pianificato l’attacco per mesi – e ciò esclude che si sia trattato di semplice rabbia di popolo – che la forza messa in campo richiama aiuti esterni e che gli architetti dell’operazione non potevano non aver messo in conto la reazione israeliana, ne deriva che è parte del disegno di Hamas rendere inevitabile una reazione che se anche fosse “proporzionata” al torto subito – come peraltro a Israele viene chiesto da più parti, nell’intento di evitare eccessi – sarebbe comunque tale da suscitare lo sdegno del mondo civile, facendo trasformare la vittima in carnefice, e tale da rendere inevitabile una guerra ben al di là di Gaza (come dimostrano le notizie che arrivano mentre sto scrivendo, di attacchi dal Libano e della relativa risposta di Israele, e di morti in Cisgiordania negli scontri scoppiati durante le manifestazioni di protesta accompagnate dall’evocazione da parte del presidente Abu Mazen di una nuova Nakba, l’esodo palestinese del 1948).
Cos’è la presa degli ostaggi, se non il tentativo di creare una frattura tra le famiglie dei rapiti e le autorità tale da minare lo spirito nazionale degli israeliani? Non è chiaro che le violenze inaudite, fino al punto di decapitare neonati e bambini, non sono gesti animaleschi incontrollati, bensì atti premeditati finalizzati ad alzare l’asticella della repressione? Ne consegue la domanda: è opportuno fare ciò che Hamas si aspetta? È saggio spingersi alla più tremenda delle reazioni se ciò fa correre il rischio di alienarsi il sostegno di vecchi e nuovi alleati? Non è forse ragionevole pensare che, più di radere al suolo Gaza, sia prioritario impedire la saldatura militare di Hamas con Jihad Islamica e Hezbollah, che potrebbe trionfare laddove l’Isis ha fallito?
Ad Hamas della questione palestinese non interessa nulla, tantomeno dell’agognata conquista di “due popoli, due Stati”, vuole solo che Israele sparisca dalla faccia della Terra una volta per sempre. Con ciò creando le premesse per ridisegnare la mappa del Medio Oriente, con l’aiuto dell’Iran e la complicità di Siria e Algeria. Tassello di qualcosa di più grande ancora, come spera Putin godendo della ambiguità della Turchia e della sorveglianza attiva ma prudente della Cina. Di fronte alle migliaia di morti e feriti che ha dovuto contare, al cospetto di atrocità come quelle subite, nessuno può dire a Israele come si deve comportare, tantomeno imporgli lezioni di moralità e di moderazione. E tacciano le litanie che invocano un peloso pacifismo di maniera. Ma Israele e i suoi alleati occidentali devono sapere che la posta in gioco è molto alta. Ben più alta, lo dico con il massimo rispetto per il dolore di Israele e con il compatimento per quei palestinesi che con Hamas non hanno nulla a che fare, della già altissima posta in gioco a Gaza. In ballo c’è il mondo intero, e in particolare – per chi come me crede nella distinzione tra democrazie e autocrazie, tra Stato laico e Stato religioso (quale che sia la fede professata) –il presente e il futuro dell’Occidente libero.