di RONALD ABBAMONTE
Non tardano ad arrivare le prime reazioni concrete agli eventi che hanno sconvolto la Birmania negli ultimi giorni. Convocato, infatti, per il prossimo 12 febbraio un vertice straordinario alle Nazioni Unite avente come questione principale le implicazioni sui diritti umani dell’agitata situazione politica del piccolo stato sud asiatico.
Sotto alla lente d’ingrandimento delle Nazioni Unite finiranno tutti gli atti successivi al golpe militare posti in essere dall’esercito per placare la violenta reazione popolare. Attenzione particolare sarà innanzitutto riservata alla certa e ripetuta violazione dei diritti umani avvenuta per il tramite della violenta attività di repressione ordita dai militari senza alcun scrupolo. Appare, infatti, evidente anche dai filmati che hanno fatto il giro del mondo in questi giorni, che l’esercito abbia usato fucili, idranti e lacrimogeni per porre fine alla protesta civile, che contravvenendo al divieto d’assembramento, protestava contro il golpe e contro l’arresto di Aung San Suu Kyi, leader del partito di maggioranza e capo del governo destituita dai generali. Misure che tuttavia non sono servite a placare la protesta civile che anzi di giorno in giorno si arricchisce numericamente provocando reazioni sempre violente e che rendono necessario e non più derogabile un intervento deciso da parte della comunità internazionale nella veste più autorevole possibile delle Nazioni Unite. Così è delle ultime ore la notizia della violenta irruzione dell’esercito nella sede centrale del partito di maggioranza ,la lega nazionale per la democrazia, partito fondato dalla stessa Aung Suu.
Attualmente Aung Suu, deposta leader del governo democraticamente eletto lo scorso novembre e premio nobel per la pace 1991, sarebbe detenuta nelle carceri della capitale Naydydaw in compagnia di altri esponenti del governo deposto.
Gli effetti di un golpe assurdo
Il colpo di spugna militare e il contestuale azzeramento dell’intera compagine governativa, espressione delle elezioni popolari dello scorso novembre, segnano senza dubbio una brusca interruzione nel fragile processo di democratizzazione della Birmania. Paradossale che l’escalation militare sia stata motivata sulla base di presunte irregolarità avvenute in occasione delle elezioni del Novembre 2020, apparse ai più non solo regolari ma anche in grado di palesare in maniera inequivocabile la voglia di rottura con i vecchi schemi attraverso i quali si davano risposte alle questioni politiche del paese. Schemi che spesso e volentieri prevedevano l’ingerenza militare nelle questioni politiche indirizzando il paese verso soluzioni imposte coattivamente in chiaro disprezzo di ogni volontà popolare e di ogni possibile democratizzazione dell’apparato statale.
Se per adesso i militari continuano a mantenere il pugno forte e la situazione ben salda nelle mani è evidente che solo un intervento internazionale può sbloccare la situazione tutelando l’integrità di tutti quei diritti, per cui sfidando mille pericoli, il popolo è sceso in piazza sempre più numeroso.
A rendere più preoccupante la situazione è la circostanza che molti dei manifestanti sono giovanissimi e data la loro giovane età non hanno consapevolezza di quanto dura possa essere la repressione reazionaria dei militari di cui il paese porta ancora le cicatrici allorquando rivolte e proteste sono state soffocate con una violenza inaudita, come ad esempio avvenuto con la la rivolta dello zafferano nel 2007.