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Sul nuovo art. 73 comma 5 dpr 309/90 dopo la sentenza della Corte Costituzionale 32/2014

Con la pronuncia che si segnala ai lettori (udienza il 28 febbraio 2014, deposito il 5 marzo 2014) la quarta sezione della Corte di Cassazione ribadisce quanto già affermato sulla natura giuridica del nuovo art. 73 comma 5 dpr 309/90 (T.U. degli Stupefacenti) e prende posizione sulle conseguenze della pronuncia n. 32/2014 della Corte Costituzionale (illegittimità della Legge Fini Giovanardi) sulla disposizione in questione.

Come avevamo già anticipato segnalando due diverse pronunce della Corte di Cassazione (puoi visualizzare le notizie relative alle sentenze nella barra a destra), infatti, in seguito all’introduzione dell’art. 2 D.L. 23 dicembre 2013, n. 146 – cd. decreto “svuota carceri” – l’art. 73 comma 5 dpr 309/90 configurerebbe un titolo autonomo di reato e non più una circostanza attenuante.

Avevamo inoltre segnalato che la stessa Corte di Cassazione – in una relazione dell’ufficio del Massimario – nel porsi il problema della nuova qualificazione giuridica della fattispecie aveva fatto notare come nella nuova formulazione vi fossero una serie di «indici sintomatici del proposito di qualificarla come un autonomo titolo di reato» tra cui veniva segnalato, in particolare, l’inserimento della clausola di sussidiarietà – prova, questa, del fatto che «l’ambito di applicazione della norma è segnato in negativo dalla configurabilità di un “più grave reato”, espressione la quale apparentemente presuppone che il fatto considerato dal quinto comma dell’art. 73 costituisca esso stesso già un reato».

Ad ulteriore conferma della tesi favorevole a riconoscere nella nuova disposizione un titolo autonomo di reato vi sarebbero – secondo i giudici – due elementi d’indole obiettiva (valutabili nella prospettiva di una possibile ricostruzione della volontà storica del legislatore), integrati dalle dichiarazioni rilasciate, in sede politica, al momento della deliberazione del D.L. n. 146 del 2013, dalle quali si evince, per l’appunto, l’intenzione di configurare “una nuova ipotesi di reato in luogo della previgente circostanza attenuante” (comunicato-stampa rilasciato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri all’esito del Consiglio dei Ministri n. 41 del 17 dicembre 2013), nonchè dalla relazione al disegno della legge di conversione del decreto, che espressamente qualifica, quella del riformulato D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, come fattispecie autonoma di reato.

Chiarito, insomma, che non si è più di fronte ad una circostanza attenuante, la Corte si è soffermata sulle conseguenze della recente pronuncia della Corte Costituzionale relativa alla legittimità della legge Fini Giovanardi: con la sentenza n. 32/2014 del 25.2.2014 – si legge nelle motivazioni – la Corte Costituzionale ha infatti dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, art. 4 bis e art. 4 vicies ter, (convertito, con modificazioni, dalla L. 21 febbraio 2006, n. 49, art.1, comma 1), con i quali il legislatore aveva uniformato il trattamento sanzionatorio relativo alle ipotesi di reato concernenti le c.d. “droghe leggere” con quelle riferite alle c.d. “droghe pesanti”; trattamento sanzionatorio che, viceversa, il testo originario del D.P.R. n. 309 del 1990 aveva configurato in termini largamente differenziati, mediante la previsione di una cornice edittale di maggiore o minore severità in relazione alla specifica natura della sostanza stupefacente considerata.

Secondo l’espressa indicazione del giudice delle leggi, con la dichiarazione dell’illegittimità costituzionale delle norme impugnate, “riprende applicazione il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 nel testo anteriore alle modifiche con queste apportate” (con il conseguente ripristino del differente trattamento sanzionatorio dei reati concernenti le cosiddette “droghe leggere”, puniti con la pena della reclusione da due a sei anni e della multa, rispetto ai reati concernenti le cosiddette “droghe pesanti”, puniti con la pena della reclusione da otto a venti anni, oltre la multa), atteso che i vizi procedurali in cui era incorso il legislatore del 2006 (in sede di conversione dell’originario decreto-legge), dovevano considerarsi tali da dar luogo ad un atto legislativo affetto da un “vizio radicale nella sua formazione (come tale) inidoneo ad innovare l’ordinamento e, quindi, anche ad abrogare la precedente normativa (sentenze n. 123 del 2011 e n. 361 del 2010)”, ponendosi per il giudice ordinario il compito di “individuare quali norme, successive a quelle impugnate, non siano più applicabili perchè divenute prive del loro oggetto (in quanto rinviano a disposizioni caducate) e quali, invece, devono continuare ad avere applicazione in quanto non presuppongono la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter” dichiarati costituzionalmente illegittimi.

In altri termini, con particolare riguardo alla norma di cui al D.L. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, occorre domandarsi se la stessa, nell’introdurre la fattispecie autonoma di reato di cui al “nuovo” D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, debba ritenersi non più applicabile (perchè “divenuta priva del proprio oggetto”, nella misura in cui rinvii a disposizioni caducate), ovvero se la stessa debba continuare ad avere applicazione, in quanto non presupponga la vigenza degli artt. 4 bis e 4 vicies ter dichiarati costituzionalmente illegittimi.

Ebbene, hanno ritenuto i giudici che l’art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90, come modificato dall’art. 2 d.l. 23 dicembre 2013, n. 146, convertito con modificazioni nella legge 2014, n. 10 disciplina un’autonoma fattispecie di reato concernente i “fatti di lieve entità”, la quale non è stata travolta dalla sentenza n. 32/2014 della Corte costituzionale e conserva una propria giustificazione sistematica anche nel mutato quadro di riferimento generale, operante una distinzione del trattamento sanzionatorio a seconda che la condotta incriminata riguardi le “droghe pesanti” o le “droghe leggere”.

In altre parole, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 32/2014, l’efficacia modificativa dell’art. 2 deve ritenersi intervenuta sul (l’unico) testo (valido) del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, ossia sul testo previgente rispetto alla riforma giudicata costituzionalmente illegittima tornato ipso iure in vigore a seguito dell’intervento del giudice delle leggi. E’ pertanto in tale prospettiva – concludono i giudici – che pare potersi intendere il passaggio contenuto nella più volte richiamata sentenza n. 32/2014 della Corte Costituzionale, là dove afferma come “gli effetti del presente giudizio di legittimità costituzionale non riguardano in alcun modo la modifica disposta con il D.L. n. 146 del 2013, sopra citato, in quanto stabilita con disposizione successiva a quella qui censurata e indipendente da quest’ultima“.

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