25 Aprile 2024, giovedì
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RENZI SIA PIÙ RIVOLUZIONARIO SE VUOLE ALLONTANARE IL SOSPETTO CHE SIA SOLO PARACULO

Lo abbiamo detto fin dall’inizio: faremo ogni sforzo per supportare Renzi, per facilitargli il successo, rendendo la più costruttiva possibile ogni nostra critica. Insomma, ci vogliamo credere. Non in lui, nella sua leadership. No, noi guardiamo alla politica e alle politiche, non agli uomini, che sono solo le gambe su cui camminano le idee (le buone e le cattive). Semmai vogliamo credere al suo governo come estremo tentativo, in questa fase di passaggio tra Seconda e Terza Repubblica, di costruire le basi di un nuovo sistema politico da offrire come prospettiva agli elettori quando saranno chiamati a dire la loro, anziché lasciarli in balia di fumosi (e inutili) personalismi contrapposti.

Già, ma detto che ci vogliamo credere, gli possiamo credere? Possiamo toglierci ogni ragionevole dubbio che il “rivoluzionario programma” del “mercoledì da leoni” enfaticamente annunciato dal presidente del Consiglio altro non sia che uno spot elettorale? Lo confessiamo: la tentazione di catalogare la manovra come un abile gioco di prestigio che consenta a Renzi di affrontare al meglio le elezioni europee e magari preparare il terreno per quelle politiche (a breve), è forte. Peraltro, il percorso è facilmente individuabile: sparata di slide che non sono neppure decreti, presentate come un tele-imbonitore; promesse di riduzioni di tasse e investimenti urgenti ed eticamente rilevanti; constatazione che i “cattivi” (Parlamento, Quirinale, Ragioneria, Bruxelles, Bce) gli impediscono di fare la “grande rivoluzione”; denuncia de “questo paese è ingovernabile” e relativa vittimizzazione; conseguente richiesta del voto al grido “se volete che governi datemi il 51%”. In fondo è un film già visto molte volte, negli due decenni.

Tuttavia, non cadiamo in questa tentazione. E proviamo a guardare con il massimo della disponibilità, al limite dell’ingenuità, la manovra renziana. Nella quale c’è, allo stesso tempo, qualcosa di nuovo e molto di vecchio. Il nuovo è lo stile di Renzi, decisamente migliore di quello di Berlusconi seppure appartenente allo stesso seme. È il coraggio, come dimostra il benservito a Cgil (costretta a contorcimenti mai visti) e Confindustria (non considerata come mai era successo) senza però – per fortuna – commettere l’errore del centro-destra di voler teorizzare sul piano ideologico l’abbandono della concertazione. Il nuovo, infine, è il cambio di passo: non più quelli piccoli di Letta – insopportabili in una fase in cui il Paese esce dalla recessione senza riuscire ad imboccare la strada della ripresa vera e propria – ma un passo di carica, almeno all’apparenza.

Viceversa, il vecchio è l’approccio tutto emotivo della manovra varata, priva di un respiro strutturale e di una cornice strategica. Vecchio è il riproporsi della diarchia tra ministero dell’Economia e palazzo Chigi, che tante volte ha occupato con prepotenza la scena della politica italiana producendo danni nefasti. Insomma, abbiamo assistito ad un pirotecnico lancio di misure congiunturali costruite su basi d’argilla e verso le quali i custodi dei conti – a via Venti Settembre, al Quirinale, a Bruxelles – nutrono ampi dubbi e profonde perplessità.

Renzi ha lanciato pochi provvedimenti solo normativi svincolati dalla necessità di risorse finanziarie (l’estensione del limite temporale dei contratti di lavoro senza vincolo di causalità da 12 a 36 mesi e alleggerimento dei limiti per l’apprendistato) e molti annunci aleatori la cui realizzabilità, a cominciare dal taglio dell’Irpef di 10 miliardi, dipende integralmente da coperture incerte e un po’ raffazzonate. Strutturare l’azione di rilancio del Paese su un “tesoretto” di 20 miliardi è o velleitario o deriva da una scarsa conoscenza di come stanno le cose, visto che ci vuole tra 10 e 20 volte tanto. Se poi si tratta di soldi la cui esistenza è tutta da verificare, peggio ci sentiamo.

Sulla stessa spending review, strumento che in passato non a caso ha scontato diversi fallimenti, il commissario Cottarelli ha specificato che per il 2014 l’ipotesi è di recuperare 3 miliardi (e non 7), e tra l’altro solo a patto che i tagli partano immediatamente. È palese: siamo ancora nel campo delle ipotesi, come lo sono sia gli incassi dal rientro dei capitali dall’estero che i potenziali proventi iva derivanti da soldi spesi per l’edilizia scolastica o dal saldo dei debiti della pubblica amministrazione. Misure le cui norme sono ancora tutte da scrivere. Stessa situazione per il taglio del 10% dell’Irap, da finanziare con l’aumento dell’aliquota sulle rendite finanziarie dal 20 al 26%, che potrebbe anche indurre una fuoriuscita di capitali e rivelarsi controproducente. Per non parlare della scommessa sui 3 miliardi risparmiati dai minori interessi sul debito pubblico, visto che conosciamo la volatilità dei mercati e non esiste certezza al mondo che domani lo spread non torni a salire.

Il premier ha limpidamente dichiarato di voler fare come Tremonti (quello che lanciò “la finanza creativa”): mettere a copertura il miglioramento futuro del quadro economico. Per adesso, tutto è rimandato al Def di fine marzo, che non sarà però l’unico controllo che il governo dovrà superare. Renzi sostiene, infatti, che altri 6,4 miliardi si potrebbero recuperare avvicinando il nostro rapporto deficit/pil all’invalicabile limite del 3% dal 2,6% che la Commissione europea stima sia oggi.

Insomma, il (fu) rottamatore può indignarsi oggi quanto vuole contro chi gli domanda dove prenderà i soldi: vedremo cosa farà domani quando le domande, o i dinieghi, arriveranno da Bruxelles. Per non andare allo scontro frontale è possibile poi che arrivino i veti di Padoan e di Napolitano, garanti dei rapporti politici ed economici dell’Italia con l’Europa. Dopo i roboanti annunci, dunque, sono ora in programma una serie di prove ad eliminazione diretta in cui Renzi dovrà fare i conti con il Ministero dell’Economia e la Ragioneria di Stato, il Quirinale e il Parlamento, l’Unione europea e i mercati internazionali. E se anche, nel migliore dei mondi possibili, tutte le prove fossero superate, il gioco sarà valso la candela? Parliamoci chiaro: tagliare il cuneo fiscale del 3,4% (10 miliardi su 296,4) non può fare la differenza e 10 (o 20) miliardi, mentre non bastano per “rivoluzionare” l’Italia, potrebbero rivelarsi un buco incolmabile per i nostri conti pubblici. La crisi è un mix di fragilità reali e di sfiducia collettiva, e pensare che qualche euro in più ai lavoratori dipendenti generi automaticamente consumo è una pia illusione. Chi guadagna 1400 euro al mese, se riceve 80 euro in più, si guarda attorno, scruta i foschi orizzonti, respira un po’ di incertezza e mette quei soldi da parte per probabili emergenze future. Non sarebbe stato molto diverso se quei soldi fossero stati integralmente dirottati sull’Irap (una tassa talmente mal formulata che andrebbe abolita), visto che lo stesso clima di sfiducia e demoralizzazione lo vivono le imprese, che avrebbero trasformato in investimenti solo metà di quelle risorse.

La scossa stilistica – basta con i piccoli passi – Renzi l’ha data. Ora serve il contenuto, che non è di qualche decina di miliardi di euro, ma semmai di qualche centinaia. Da ricavare da un piano Marshall di finanza straordinaria – che metta in gioco il patrimonio pubblico e chieda il soccorso di quello privato (senza intenti punitivi, anzi) – sulla base di un ripensato modello di sviluppo. Ben di più e di più complesso della presunta rivoluzione renziana. I critici, però, lo incoraggino ad andare avanti, ad essere “rivoluzionario” anche nelle riforme che tagliano (strutturalmente) la spesa improduttiva. Fare gli scettici non serve. Anche se è difficile dire che non ce ne sia motivo.

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