19 Aprile 2024, venerdì
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Erdoğan è davvero finito?

La Turchia è spesso descritta come un polo economico con una politica estera (iper)attiva, reso possibile dalla stabilità politica assicurata dai tre mandati consecutivi del Partito Giustizia e Sviluppo (Akp). Critiche non mancano tuttavia ai limiti delle riforme messe in atto dal governo, sempre più lontane dall’agenda europea, e alle aspirazioni egemoniche del paese a livello regionale.

In questo scenario le pacifiche proteste in piazza Taksim, a Istanbul, hanno colto di sorpresa l’opinione pubblica internazionale. La stabilità politica della Turchia vacilla? L’indiscutibile primato dell’Akp potrà essere messo in crisi dalla crescente ondata di dissensi? “Erdoğan è davvero finito?” si domanda infine Judy Dempsey, del think tank Carnegie Europe.

Dissenso crescente
Come molti analisti non hanno mancato di osservare, le proteste di Istanbul avevano poco a che vedere con la demolizione del piccolo parco Gezi in piazza Taksim per la costruzione di un maxi-centro commerciale. Con il violento intervento delle forze di polizia e l’uso massiccio di gas lacrimogeni sulla folla, le proteste si sono presto diffuse in tutto il paese.

I laici sono insorti contro l’adozione di una legge che restringe severamente il consumo di alcolici, giustificata dal primo ministro con l’esplicito riferimento a versetti coranici. Gli alevi, le cui già tese relazioni con il governo sono messe a dura prova dalla crisi siriana – e dalle recenti bombe sul confine, a Reyhanlı –, sono scesi in piazza contro la decisione del governo di dare al terzo ponte sul Bosforo il nome di “Selim il crudele”, sultano Ottomano mandante dei massacri dei musulmani alevi.

Ambientalisti e cittadini protestano contro l’incontrollata speculazione edilizia dell’Akp, deciso a spazzare via i pochi angoli verdi della città e ad erigere l’ennesimo centro commerciale nella vecchia sede del più antico cinema turco.

Al di là dei contenuti, ciò che ha unito i manifestanti che si sono presto mobilitati in tutto il paese è la crescente opposizione a una gestione del potere sempre più autoritaria del primo ministro. L’opposizione ad una concezione della democrazia fortemente maggioritaria e il dissenso verso una leadership gerarchica e accentrata hanno portato decine di migliaia di manifestanti nelle piazze turche. L’altro lato della medaglia è la crescente frustrazione verso l’inefficace opposizione del Partito popolare repubblicano (Chp), incapace di condurre importanti battaglie parlamentari.

Quale svolta?
La domanda di molti osservatori è se le proteste di Gezi Park possano segnare un punto di svolta nella politica interna. Il primo ministro avrà intuito di non potersi spingere oltre? Il governo potrà placare le opposizioni emerse con una brusca inversione di marcia?

È difficile che questa svolta abbia luogo ora. Sebbene le proteste abbiano raggiunto livelli senza precedenti, Erdoğan ha ragione quando afferma di poter “portare in piazza un milione di sostenitori ogni centomila dimostranti”. Parlando di numeri, il primo ministro turco gode ancora di una solida maggioranza nel paese.

Eppure le proteste hanno implicazioni più profonde, che non possono essere eluse attraverso un semplice calcolo elettorale. Il governo è attualmente coinvolto in una doppia sfida. Da un lato il “processo” – süreç – con il Pkk curdo. Dall’altro, il difficile tentativo di trovare i consensi per riformare la costituzione.

Ci sono buone possibilità che il governo turco riesca nella sua doppia sfida. Le dinamiche regionali – siriane ed irachene – e quelle interne sembrano convergere in una sinergia che rende l’intesa turco-curda per la prima volta possibile dopo trent’anni di conflitto.

Il negoziato con i curdi e l’accordo su una riforma costituzionale che possa portare ad un concreto avanzamento democratico del paese necessitano tuttavia di un profondo processo di revisione e di un coinvolgimento organico dell’intero paese.

Un governo di maggioranza, specialmente se ampia come quella di cui l’Akp dispone, può fare miracoli nel superare gli storici tabù del paese. Portare queste riforme al successo richiede tuttavia un vasto coinvolgimento delle molteplici anime della società turca.

Opportunità per l’Ue
Anche se può sembrare nostalgico e romantico affermarlo, l’Europa ha ancora un prezioso ruolo da giocare in questa partita. Portando avanti un credibile processo di adesione e fissando i parametri democratici su cui le eterogenee forze politiche turche possano convergere.

Anche qui un’emergente costellazione di fattori, dal recente ritrovamento dei bacini di gas nel Mediterraneo dell’est alle prospettive della nuova Europa multi-livello che potrebbe emergere oltre la crisi economica, suggeriscono che la virtuosa dinamica tra la Turchia e Unione europea non possa restare a lungo sopita. Ma attende, da entrambi i lati, nuove leadership per riprendere vigore.

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