29 Marzo 2024, venerdì
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Vaccino covid accessibile a tutti?

La pandemia era attesa, ma ha colpito impreparati i governi. Che ora corrono a elargire risorse a iosa all’industria farmaceutica. Due le priorità: non escludere nessuno dal vaccino e far tesoro degli errori.

Un memoriale per le vittime del Covid. Nei mesi scorsi, la proposta di erigere in Francia un monumento in ricordo dei morti della pandemia ha suscitato un vespaio di polemiche. Tra i più accesi oppositori il filosofo Bernard-Henri Lèvy, che l’ha bollata come “ grottesca e soprattutto indecente”. I memorial della Shoah, della Resistenza o del genocidio armeno sono il monito storico di un tragico passato – questo il suo ragionamento- mentre i morti di Covid, come quelli di cancro o diabete, non sono martiri della storia. Buona o cattiva che sia l’idea del memoriale, la domanda ineludibile è : siamo sicuri che si tratti solo di fatalità e che la storia ( che di scelte sciagurate si nutre) non c’entri nulla? La storia si fa anche cin i “se”, e le cose sarebbero potute andare diversamente se i governi avessero dato ascolto agli esperti. Non alle trame di giallisti, alle profezie di Nostradamus o ai film su contagi apocalittici. Ma alle prove raccolte dalla comunità scientifica. 

La spada di Damocle 

Dopo la Sars, all’inizio di questo millennio, e la Mers nel 2012- entrambe altamente letali mapoco contagiose, gli  scienziati e le autorità sanitarie di mezzo mondo avevano previsto la comparsa  di una malattia respiratoria causata un nuovo virus, capace di fare il salto di specie da  un animale all’ uomo. Un  contagio che sarebbe potuto sfociare in una pandemia. Predizioni non certo rimaste ai circoli accademici.  Erano comparse in forma articolata,

tanto precisa da sembrare profetiche, anche in saggi divulgativi, alcuni de quali di largo successo in cima a tutti Spillover (Adelphi) di David Ouammen uscito nel 2012 e poi divenuto celebre per aver centrato il luogo dal quale sarebbe venuto fuori il virus, un mercato cittadino della Cina meridionale. Perfino Bill Gates in un Ted talk del 2015 aveva indicato in un virus altamente contagioso, la causa che ucciderà dieci milioni di persone, nel prossimi decenni.

Per fortuna siamo lontani da numeri cos catastrofici, e speriamo di non arrivarci mai. Fatto sta che, nonostante i precedenti e l’attesa di una pandemia, i coronavirus sono stati studiati poco.

Negli ultimi vent’anni l’interesse e gli investimenti (pubblici e no) sono avvenuti a ridosso di ogni emergenza, per poi calare nettamente una volta cessato l’allarme. Uno stato di cose che nel 2015 ha spinto l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a inserire questi virus nella lista del patogeni cui dare priorità nella ricerca e contro cui era più urgente sviluppare farmaci antivirali e vaccini. In ogni caso l’investimento in ricerca ha riguardato sempre cifre irrisorie, tanto più se paragonate a quelle che stiamo Investendo oggi, spinti dalla paura dai disastri umani e materiali generati dal Sars-Cov-2

Un sistema da cambiare

Il punto è che la ricerca e lo sviluppo dei farmaci sono perlopiù lasciati alla libera iniziativa del privati. L’industria farmaceutica non ha -e non si può neanche pretendere che abbia tra i suoi

obiettivi salute del pazienti e di coprire le aree in cui scarseggiano terapie efficaci.  L’impresa privata investe e innova nei settori più redditizi. Ciò che persegue in via prioritaria sono i profitti, che devono essere quanto più ragguardevoli e certi.  Ragioni per cui deve minimizzare i rischi e sfruttare al massimo le protezioni ( brevetti e monopoli temporanei) e altri vantaggi, tra cui quelli fiscali, che le leggi le garantiscono. Le aziende si concentrano soprattutto sui farmacioncologici e sui farmaci “orfani” Uno status, quello di farmaco orfano, che viene sfruttato per farmaci destinati alla cura di malattie rare, come dovrebbe essere, ma a “nicchie di pazienti (vedi articolo su Altroconsumo InSalute 143, dicembre 2019). I medicinali ncologici

e quelli orfani sono considerati dall’industria preziosissime galline dalle uova d’oro, perché è su questi che è più facile imporre prezzi stellari agli Stati. Prezzi spesso iniqui, in quantototalmente sganciati da riferimenti reali, vale a dire dai costi sostenuti per portare sul mercato il farmaco e dal riconoscimento di un giusto profitto.

Pagare due volte

Dover strapagare i farmaci per gli Stati significa mettere in pericolo la sostenibilità del proprio sistema sanitario, non poter garantire a tutti i malati un equo accesso alle terapie e, in ultima analisi, essere costretti a razionarle, come è già successo. Paradossalmente tutto questo è reso

possibile grazie alla corazza di protezione dalla concorrenza che gli stessi Stati hanno cucito addosso all’industria farmaceutica. Va inoltre considerato che sempre più spesso le grandi case farmaceutiche si sottraggono al rischio di sviluppare in proprio nuove molecole e preferisconoacquistare i brevetti di prodotti messi a punto in aziende più piccole o in

laboratori universitari che hanno ricevuto finanziamenti. Così i governi pagano l’innovazione due volte: a monte (perché hanno finanziato la ricerca) e a valle (perché hanno acquistato a

carissimo prezzo i farmaci).

Un business poco appetibile

Le malattie infettive emergenti sono invece ben lungi dall’essere uno scenario attraente per l’industria, poiché non è dato sapere quale virus causerà un focolaio, né dove e quando

questo avverrà. E più probabile che ciò accada nei paesi con meno risorse, quelli incapaci di pagare i farmacia prezzi così alti da garantire i margini di profitto sperati. Inoltre un focolaio può anche essere controllato abbastanza rapidamente, in certi casi persino senza farmaci. Tanti rischi e incognite mal si accordano con la visione squisitamente commerciale delle aziende. Questo spiega perché dal 1995 a oggi, stando ai dati dell’Oms, tra tutti i progetti di

ricerca che hanno dato origine a farmaci, vaccini e mezzi diagnostici, solo il 7% ha riguardato le malattie infettive. Molto meno, soltanto lo 0,4%, i progetti relativi ai patogeni per i quali la stessa Oms aveva raccomandato priorità di studio. C’è di più: prima di quest’anno gli studi

clinici su Sars e Mers da parte di aziende si potevano contare sulle dita di due mani, e ciascuno di questi dipendeva fortemente da investimenti pubblici (principalmente americani).

Brutta partenza. E il finale?

Sarà questa l’occasione per imparare dagli errori e cambiare sistema? Le prime avvisaglie non lasciavano ben sperare. Infatti, il primo riflesso istintivo degli Stati non è stato quello di fare fronte comune, bensì di ingaggiare una dannosa competizione tra loro. C’è stata la gara ad accaparrarsi prima i dispositivi di protezione e poi il diritto di prelazione sulle dosi di vaccino necessarie a immunizzare la propria popolazione. Ma così si fa ancora una volta il gioco

dell’industria, che da sempre mette in pratica la strategia del «divide et impera»: dividere gli acquirenti per non far trapelare i termini degli accordi, affinché ciascuno pensi di aver puntato le condizioni più vantaggiose, mentre è lei la sola a guadagnarci. Iniziata negli Stati Uniti, la corsa all’approvvigionamento del vaccino è continuata in Europa con l’iniziativa di Francia, Germania, Italia e Olanda, che insieme hanno negoziato a metà giugno un accordo con Oxford/AstraZeneca per assicurarsi in totale 400 milioni di dosi. Non è malizioso pensare che sia stato proprio questo accordo a spingere la Commissione europea ad accelerare la presentazione del proprio piano di intervento comune al fine di evitare disparità (e malumori)

all’interno dell’Unione e di garantire a tutta la popolazione europea un accesso rapido ed equo al vaccino. Il programma è in realtà di più ampio respiro, perché la Commissione ha deciso di guidare lo sforzo di solidarietà a livello globale affinché il vaccino sia universalmentedisponibile. Pertanto, oltre che mettere a disposizione proprie risorse, si è attivata per stimolare il contributo economico di paesi extra-europei (e anche di organizzazioni filantropiche). Massicce iniezioni di denaro pubblico nelle casse delle aziende farmaceutiche, soprattutto in quelle di chi ha i “cavalli” considerati vincenti, non servono solo a sviluppare

più velocemente il vaccino, ma anche a rafforzare il sistema produttivo e distributivo, in modo da ottenere in tempi brevi il numero di dosi necessario a garantire un accesso esteso alla profilassi. Obiettivo su cui gli Stati Uniti sono attivissimi. Ma  la parte più innovativa del piano di Ursula von der Leyen sta nel fatto che la Commissione concluderà accordi con singoli produttori di vaccini a nome degli Stati membri. In cambio del diritto di acquistare un determinato numero di dosi di vaccino in un dato periodo, la Commissione finanzierà una parte dei costi iniziali sostenuti dai produttori di vaccini. Il tutto assumerà la forma di accordi preliminari di acquisto. I finanziamenti erogati saranno considerati un acconto sui vaccini chesaranno effettivamente acquistati dagli Stati membri. Sembra incredibile che si riesca finalmente a centralizzare a livello europeo le negoziazioni con le aziende del farmaco. E addirittura che si tenga conto dei soldi pubblici già versati, per non pagare due volte. La via imboccata sembra quella giusta. Sul prezzo occorrerà trasparenza: chissà se anche questa farà parte degli accordi.

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