25 Aprile 2024, giovedì
HomeNewsRENZI DEVE EVITARE CHE IL PD SI SPACCHI PRO O...

RENZI DEVE EVITARE CHE IL PD SI SPACCHI PRO O CONTRO DI LUI

Per favore, risparmiateci queste scene. Da entrambe le parti. In gioco non c’è né la continuità del governo, né la sopravvivenza della democrazia. Ci riferiamo alla guerra che, tra Mose e “gruppo dei dissidenti”, è scoppiata dentro il Pd. Guerra politica – peraltro prevedibile (e prevista) – che come tale va giudicata. Le due parti sono, ormai, “quelli pro” e “quelli contro” Renzi. Un dualismo che, per chi, come Renzi, rischia di vedersi sempre sgradevolmente associato a Berlusconi, andrebbe scongiurato, non alimentato.

I fatti scatenanti sono noti: da un lato il braccio di ferro su Orsoni – è del Pd o è uno senza tessera e da rinnegare? – conclusosi con le sue dimissioni da sindaco di Venezia e l’addio alla politica; dall’altro, l’epurazione dei senatori Mineo e Chiti dalla commissione Affari Costituzionali, cosa che ha indotto altri 12 parlamentari a costituire una pattuglia di dissidenti. In entrambi i casi ci sono torti e ragioni che vanno ben al di là dello schema “pro-contro” segretario del partito e presidente del Consiglio. Partiamo da Venezia. Da garantisti, non entriamo nel merito della posizione giudiziaria di Orsoni, e sappiamo che il patteggiamento, cui lui è acceduto, spesso rappresenta una via d’uscita da una carcerazione preventiva insopportabile perché priva di ragioni. Dal punto di vista politico, però, ci saremmo attesi che di quei quattrini che sono andati a finanziare la sua campagna elettorale, il Pd, che lo ha candidato, se ne assumesse la responsabilità in solido. Invece Renzi, che aveva (giustamente) salvaguardato due sottosegretari raggiunti da avvisi di garanzia, lo ha scaricato subito, senza neppure considerare che sarebbe stato difficile attribuire la patente di “vecchio politico da rottamare” ad uno pescato nella società civile e fino a poco prima portato in palmo di mano da tutti, renziani in testa. Lasciando così che ancora una volta sia la magistratura a selezionare il ceto politico. D’altra parte, come ha scritto con la consueta efficacia Davide Giacalone, pure il “catone censore” Cacciari è caduto nella trappola di dare i (brutti) voti a tutti e ritrovarsi a dover giustificare le sue richieste ai generosi dirigenti del vecchio CVN. Ma si sa, l’ipocrisia è il tratto della politica italiana da Tangentopoli in poi, e pare voglia continuare ad esserlo anche in questa fase di transizione, in cui è finita la Seconda Repubblica ma non è ancora iniziata la Terza.

Quanto ai dissidenti, è evidente che la loro è una forzatura politica, una sfida ai nuovi assetti interni al Pd. Ma la risposta è stata del tutto sbagliata. Non si può considerare la presenza in una commissione parlamentare alla stessa stregua di un incarico di partito, non si può sollevare d’imperio chi trova sancito nella Costituzione – la mancanza di vincolo di mandato – il proprio diritto ad agire in piena libertà rispetto alle indicazioni del suo partito (sarà in quella sede, non in quella parlamentare, che si regolano i conti). Peraltro, sarebbe bastata l’autorevolezza della presidenza del Senato a impedire questo madornale errore. Inoltre, le obiezioni sollevate sulla riforma del Senato sono fondate – lo abbiamo detto in tempi non sospetti in questa sede che per superare il bicameralismo perfetto occorre diversificare le funzioni delle due camere, non cancellare il Senato o ridurlo a dopolavoro di Regioni e Comuni – anche se è palese che molti dei dissidenti sono animati solo da quello spirito di conservazione costituzionale che, per esempio, ha subito indotto Rodotà a evocare con il consueto radicalismo retorico il presunto “vulnus democratico”. Non esageriamo, che si fa presto a passare dalla ragione al torto.

Ma usciamo dalla specificità di queste vicende per fare un ragionamento di carattere più generale. Renzi, a suo tempo, aveva davanti a sé due opzioni: uscire dal Pd per fare lui, e non Monti, quel partito né di destra né di sinistra che doveva unire moderati e riformisti per mettere fine al fallimentare bipolarismo italico e governare pragmaticamente il paese, per due decenni paralizzato dalla contrapposizione tra berlusconiani e antiberlusconiani; rimanere dentro il Pd e provare a conquistare una fetta dei voti moderati nonostante il retaggio del passato. Noi gli consigliavamo la prima strada, lui ha scelto la seconda. Finora i fatti gli hanno dato ragione: segreteria del partito, palazzo Chigi, 41% dei voti alle europee. Ma proprio per questo Renzi non può e non deve evitare di farsi carico del veicolo attraverso il quale ha scelto di conquistare il potere. Non si tratta di prendersi responsabilità non sue, né tantomeno precludersi la possibilità di cambiare il Pd da cima a fondo, nei valori, nei programmi, negli uomini. Ma tutto questo non si può fare tirando una riga, di qua i renziani – quali, poi, quelli della prima ora o anche quelli dell’ultima? – e di là i cattivi. E neppure facendo finta che uomini, strutture e soldi che erano e sono rimasti dentro il Pd, e anche attraverso i quali ha potuto vincere le elezioni, non esistano solo perché preesistenti. Per fare così andava fatta la scelta che noi gli suggerivamo. Ora far finta che il Pd sia suo, o che lo debba diventare per effetto del voto di maggio, è non soltanto una forzatura, ma un grave errore politico.

Sponsorizzato

Ultime Notizie

Commenti recenti