Il confronto tra il voto 2020, spinto dal referendum e non fermato dal COVID, e la tornata 2025 svela la crisi di rappresentanza. Senza l’effetto emergenza, prevale la disillusione: i nuovi governatori eletti da una minoranza, mentre la maggioranza silenziosa rinuncia al suo potere di cambiare.
Il dato sull’affluenza alle urne per le elezioni regionali del 2025 in Campania, Puglia e Veneto si configura come un campanello d’allarme per la democrazia partecipativa, soprattutto se confrontato con la sorprendente mobilitazione registrata nella medesima tornata elettorale del settembre 2020. A distanza di cinque anni, le tre regioni hanno manifestato un netto e generalizzato calo di partecipazione, evidenziando come il voto del 2020, tenutosi in un clima di incertezza sanitaria a causa della pandemia di COVID-19, sia stato un evento eccezionale, trainato da fattori esterni oggi assenti. Nel 2025, il Veneto è sceso al 44,64% di votanti, registrando un crollo di oltre sedici punti percentuali rispetto al 61,16% del 2020. Un trend simile si è manifestato in Puglia, passata dal 56,43% al 41,83% con una diminuzione di circa quindici punti, risultando la meno partecipativa tra le tre. La Campania ha mostrato una flessione più contenuta, ma comunque significativa, attestandosi al 44,06% a fronte del 55,52% di cinque anni prima. Questa dinamica pone la domanda: perché la paura del contagio non ha prevalso sull’impegno civico nel 2020, mentre nel 2025, senza l’ombra dell’emergenza sanitaria, l’astensionismo è tornato a dominare la scena?
La risposta è principalmente duplice. Da un lato, nel 2020, le elezioni regionali si tennero in contemporanea con il Referendum Costituzionale sul taglio dei parlamentari, un tema di forte risonanza nazionale che ha agito come potente magnete per l’elettorato. L’accorpamento delle votazioni, pratica nota per innalzare fisiologicamente l’affluenza, ha fatto sì che un voto di natura locale venisse percepito e vissuto con una partecipazione tipica dei grandi appuntamenti politici nazionali. In Veneto, a questo si aggiunse anche un referendum consultivo regionale, amplificando ulteriormente l’effetto “Election Day”. Dall’altro lato, le rigide misure di sicurezza adottate nei seggi elettorali (distanziamento, mascherine, sanificazione), pur nella difficoltà del momento, hanno giocato un ruolo cruciale nel rassicurare i cittadini. Nel settembre 2020, collocato tra la fase acuta della prima ondata e l’inizio della successiva, vi era inoltre una spinta alla mobilitazione da parte di candidati e governatori uscenti che avevano gestito la prima crisi sanitaria e cercavano una forte legittimazione popolare. Il voto del 2020 si configura dunque come un caso studio in cui l’importanza percepita dell’appuntamento elettorale, unita alla possibilità di esprimersi su questioni nazionali rilevanti, ha superato la preoccupazione sanitaria. L’astensionismo del 2025, al contrario, riporta le lancette all’andamento tipico delle sole elezioni regionali, confermando come, senza un forte traino nazionale o un senso di emergenza a motivare l’uscita, la disaffezione per la politica locale o l’assenza di percezione di un rischio elevato nel risultato finale tenda a prevalere.
Il vero vincitore di questa tornata elettorale, al di là delle vittorie e delle sconfitte dei singoli schieramenti, è l’astensionismo, il grande partito del non-voto che continua ad avanzare in maniera inesorabile. Il calo massiccio di affluenza è il segnale più inequivocabile della profonda crisi di rappresentanza che affligge il Paese. Il cittadino che sceglie di non recarsi alle urne esprime, con il suo silenzio, la convinzione che la politica non abbia più la capacità o la volontà di tradurre il voto in un reale potere di cambiamento, richiamando l’amara ironia del monito cinematografico: “Vota Antonio La Trippa. Chi vota Antonio La Trippa vota la maggioranza!”. Questa percezione di immutabilità e di interscambiabilità della classe dirigente demobilita l’elettorato e consolida un sistema in cui i blocchi di potere riescono a prevalere con maggiore facilità, grazie a una base di elettori fedeli, seppur minoritaria. Quando una regione è governata con il consenso di meno della metà dei suoi aventi diritto, il mandato politico rischia di essere percepito come debole, ma allo stesso tempo, chi non vota rinuncia di fatto al suo potere contrattuale. Il paradosso si completa: gli astensionisti, pur manifestando una protesta, consentono che la decisione venga lasciata a un élite più ristretta, perdendo l’occasione di attuare quel cambiamento radicale che affermano di desiderare. L’avanzata dell’astensionismo non è solo un dato statistico, ma la fotografia di un corpo civico che si sente disarmato di fronte a una politica che non riesce più a ispirare fiducia o a dimostrare che il voto possa realmente sovvertire lo status quo.
Il dato sull’affluenza alle urne per le elezioni regionali del 2025 in Campania, Puglia e Veneto si configura come un campanello d’allarme per la democrazia partecipativa, soprattutto se confrontato con la sorprendente mobilitazione registrata nella medesima tornata elettorale del settembre 2020. A distanza di cinque anni, le tre regioni hanno manifestato un netto e generalizzato calo di partecipazione, evidenziando come il voto del 2020, tenutosi in un clima di incertezza sanitaria a causa della pandemia di COVID-19, sia stato un evento eccezionale, trainato da fattori esterni oggi assenti. Nel 2025, il Veneto è sceso al 44,64% di votanti, registrando un crollo di oltre sedici punti percentuali rispetto al 61,16% del 2020. Un trend simile si è manifestato in Puglia, passata dal 56,43% al 41,83% con una diminuzione di circa quindici punti, risultando la meno partecipativa tra le tre. La Campania ha mostrato una flessione più contenuta, ma comunque significativa, attestandosi al 44,06% a fronte del 55,52% di cinque anni prima. Questa dinamica pone la domanda: perché la paura del contagio non ha prevalso sull’impegno civico nel 2020, mentre nel 2025, senza l’ombra dell’emergenza sanitaria, l’astensionismo è tornato a dominare la scena?
La risposta è principalmente duplice. Da un lato, nel 2020, le elezioni regionali si tennero in contemporanea con il Referendum Costituzionale sul taglio dei parlamentari, un tema di forte risonanza nazionale che ha agito come potente magnete per l’elettorato. L’accorpamento delle votazioni, pratica nota per innalzare fisiologicamente l’affluenza, ha fatto sì che un voto di natura locale venisse percepito e vissuto con una partecipazione tipica dei grandi appuntamenti politici nazionali. In Veneto, a questo si aggiunse anche un referendum consultivo regionale, amplificando ulteriormente l’effetto “Election Day”. Dall’altro lato, le rigide misure di sicurezza adottate nei seggi elettorali (distanziamento, mascherine, sanificazione), pur nella difficoltà del momento, hanno giocato un ruolo cruciale nel rassicurare i cittadini. Nel settembre 2020, collocato tra la fase acuta della prima ondata e l’inizio della successiva, vi era inoltre una spinta alla mobilitazione da parte di candidati e governatori uscenti che avevano gestito la prima crisi sanitaria e cercavano una forte legittimazione popolare. Il voto del 2020 si configura dunque come un caso studio in cui l’importanza percepita dell’appuntamento elettorale, unita alla possibilità di esprimersi su questioni nazionali rilevanti, ha superato la preoccupazione sanitaria. L’astensionismo del 2025, al contrario, riporta le lancette all’andamento tipico delle sole elezioni regionali, confermando come, senza un forte traino nazionale o un senso di emergenza a motivare l’uscita, la disaffezione per la politica locale o l’assenza di percezione di un rischio elevato nel risultato finale tenda a prevalere.
Il vero vincitore di questa tornata elettorale, al di là delle vittorie e delle sconfitte dei singoli schieramenti, è l’astensionismo, il grande partito del non-voto che continua ad avanzare in maniera inesorabile. Il calo massiccio di affluenza è il segnale più inequivocabile della profonda crisi di rappresentanza che affligge il Paese. Il cittadino che sceglie di non recarsi alle urne esprime, con il suo silenzio, la convinzione che la politica non abbia più la capacità o la volontà di tradurre il voto in un reale potere di cambiamento, richiamando l’amara ironia del monito cinematografico: “Vota Antonio La Trippa. Chi vota Antonio La Trippa vota la maggioranza!”. Questa percezione di immutabilità e di interscambiabilità della classe dirigente demobilita l’elettorato e consolida un sistema in cui i blocchi di potere riescono a prevalere con maggiore facilità, grazie a una base di elettori fedeli, seppur minoritaria. Quando una regione è governata con il consenso di meno della metà dei suoi aventi diritto, il mandato politico rischia di essere percepito come debole, ma allo stesso tempo, chi non vota rinuncia di fatto al suo potere contrattuale. Il paradosso si completa: gli astensionisti, pur manifestando una protesta, consentono che la decisione venga lasciata a un élite più ristretta, perdendo l’occasione di attuare quel cambiamento radicale che affermano di desiderare. L’avanzata dell’astensionismo non è solo un dato statistico, ma la fotografia di un corpo civico che si sente disarmato di fronte a una politica che non riesce più a ispirare fiducia o a dimostrare che il voto possa realmente sovvertire lo status quo.
