A cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano
Si gridò al complotto anti-berlusconiano, pensato a Bruxelles e a Francoforte, così come oggi si parla di manovra anti-Meloni. Alla Bce c’è Lagarde, che con il rialzo dei tassi punisce l’Italia, mentre a Parigi e Berlino ci sono Macron e Scholz, che non ridono platealmente di Meloni come Sarkozy e Merkel fecero di Berlusconi, ma il copione, secondo i complottardi, non sarebbe cambiato. È bastato un articolo del Financial Times, del 18 settembre, intitolato “La luna di miele è finita”, e uno graffiante dell’Economist, ed ecco che ad essere al centro della questione non sono i ritardi del Pnrr, la mancata approvazione del Mes, l’infelice scelta di tassare i cosiddetti extra-profitti delle banche (da cui si sta tornando indietro) o l’inappropriata lettera al governo tedesco sui migranti, bensì le critiche “pretestuose” rivolte al governo, segno che non meglio identificati “poteri forti” vogliono defenestrare chi è stato democraticamente eletto dal popolo a favore di un qualche tecnico fantoccio di quei poteri occulti. E pazienza se a Wall Street o tra i banker europei siano invece la tassa sulle banche e il tentativo di attribuire per legge poteri mai visti alle minoranze in società quotate in Borsa, a destare malumore, visto che sono due cose che vanno contro i principi fondamentali che regolano le economie di mercato.
E, come nel 2011, anziché provare a rimettere il Paese sulla via della crescita strutturale – non quella dopata dei bonus – facendo con coraggio le riforme e le scelte necessarie, si evocano machiavelliche congiure. A questo proposito, faccio sommessamente notare che allora la scelta di questa narrazione non portò bene all’inquilino di palazzo Chigi. E temo che sarà così anche questa volta, se non si ascolta neppure chi (Giulio Tremonti) pur essendo stato un convinto assertore della strategia dello sgambetto a Berlusconi (e a lui) oggi dice papale papale che “non c’è nessuna regia occulta dei mercati contro l’Italia”.
Per evitare che la storia si ripeta, Meloni ha tre modi. Il primo è evitare non solo di dire, come ha detto, ma di pensare, che “lo spread preoccupa solo chi vuole che cadiamo, chi come sempre immagina che un governo democraticamente eletto, che fa il suo lavoro, che ha una maggioranza forte e stabile, debba andare a casa”. Tra pochi giorni le maggiori agenzie di rating daranno il loro giudizio sull’affidabilità economica dell’Italia e lì vedremo chi si dovrà preoccupare dello spread. Il secondo modo è dare al Paese una manovra coraggiosa, e non solo prudente come lei stessa ha definito quella che s’intravede dalla Nadef appena approvata. Perché nel giudizio dei mercati, da cui dipendono le sorti del nostro debito pubblico, specie ora che la Bce ha chiuso l’ombrello protettivo che per anni ci aveva tenuto sopra la testa, conta relativamente che la presidente del Consiglio voglia evitare che la lista della spesa presentatale dai partiti di maggioranza, pari a 80 miliardi si tramuti in spesa pubblica aggiuntiva. Conta di più il fatto che nella legge di Bilancio 2024 non è previsto alcun intervento sulla spesa corrente strutturale (solo lo stop a superbonus e reddito di cittadinanza) e che per trovare i fondi per la conferma del taglio del cuneo fiscale, per un minimo di riduzione delle imposte per i redditi più bassi, per le misure per le famiglie e per i rinnovi dei contratti del pubblico impiego, per un totale di 14 miliardi, bisognerà incrementare il deficit da un tendenziale del 3,6% ad un programmatico del 4,3 %. Così come conta che il moloch del debito in rapporto al pil non viene intaccato (solo un decimo di punto l’anno prossimo e mezzo punto entro il 2026). Tanto più che la crescita torna ad essere quel “zero virgola” che ci ha accompagnato negli ultimi tre decenni (a questo proposito vedi la War Room di mercoledì 27 settembre con Carlo Bastasin, Gregorio De Felice e Dario Di Vico, e che se nel 2024 non si farà, come è assai probabile, il previsto +1,2% del pil, allora il debito, in rapporto al prodotto lordo, finirà addirittura per aumentare.
Infine, il terzo modo che Meloni ha per evitare i guai del 2011 è, rileggere con serietà e senza pregiudizi, quella storia, evitando di piegarla alle esigenze dell’oggi. Si legga la bella analisi scritta da una sua ex collega di partito, Flavia Perina, che ricordando come la destra che rivendica il diritto ad una rilettura del passato remoto dell’Italia abbia il dovere di esercitare un onesto revisionismo anche sul passato prossimo. E ci convinca che ha capito e imparato la lezione della storia.
Insomma, guai a fare spallucce ai problemi e pensare che ci siano trame oscure in atto. La verità, che la nostra classe politica ignora o fa finta di non vedere, è molto semplice: gli operatori finanziari sanno bene che la stagione dei tassi bassi è finita per sempre e che il costo del debito è molto maggiore di un tempo. E questo spiega la fiammata oltre 200 punti dello spread di giovedì, poi leggermente rientrata. Gli allarmi non stanno ancora suonando, ma i sensori stanno vibrando. Il resto è fuffa.