25 Aprile 2024, giovedì
HomeNewsQuel nulla a cui non vogliamo abituarci

Quel nulla a cui non vogliamo abituarci

A cura di Giuseppe Catapano e Don Carlo Giuliano 

“Lo abbiamo visto in fondo, seduto, solo, con la testa fra le mani e le armi appoggiate sul banco”. Così i militari intervenuti lunedì scorso ad Abbiategrasso in un’aula dell’Istituto Alessandrini hanno descritto lo studente sedicenne che pochi minuti prima aveva accoltellato la sua insegnante e spaventato, con la minaccia di una pistola, i suoi compagni di classe.

Ora quel ragazzo è in carcere e possiamo solo sperare che chi si occuperà di lui abbia la possibilità di aiutarlo. Aiutarlo a giudicare i gesti che ha compiuto, individuare e curare l’eventuale disagio psichico di cui potrebbe essere portatore, avviare per lui percorsi di recupero. Con il coraggio di guardarlo negli occhi, provando a desiderare per lui lo stesso bene che si desidera per un figlio.

Ma a noi non basta stringerci nelle spalle, appagati dal fatto che la giustizia “farà il suo corso”, e neppure esorcizzare la paura cercando di convincerci che gesti come questo sono fatti estremi e che nel perimetro della nostra vita non accadranno mai. Perché in fondo sappiamo bene che la follia di ciò che è successo in quella prima ora di lezione nella scuola di Abbiategrasso indica comunque l’emergere di un disagio, di una frustrazione del vivere che permea il clima umano nel quale i nostri giovani vivono. E sappiamo che frustrazione, risentimento, rabbia possono alimentare i più assurdi gesti di violenza.

Quella descrizione fatta dai militari è quasi la metafora di una realtà che narra non solo di quel ragazzo di Abbiategrasso, ma forse di tanti dei nostri ragazzi, una metafora, in fondo, del rapporto che noi adulti abbiamo con loro. Un’immagine che ci interroga. Siamo noi che forse li abbiamo lasciati soli, che abbiamo consentito che restassero seduti, che ci siamo trovati impotenti a far loro alzare la testa dalle mani, anche noi come loro privi di energia. Anche noi, come diceva in una recente intervista Giuseppe De Rita, abbiamo “persa la carica di andare avanti e di crescere, e l’adrenalina di ciascuno di noi finisce nel rancore”.

Recentemente, nel contesto di un progetto didattico, a ragazzi tra gli 11 e i 13 anni era stato proposto, dopo aver assistito alla proiezione di un noto film d’autore, di scrivere e interpretare storie in qualche modo evocate da quel film. Incredibilmente tutte le produzioni avevano una nota in comune, l’esperienza della frustrazione. In una partita di calcio il pallone si sgonfiava, la scuola non era altro che una continua e fallimentare ricerca di riuscita, l’ansia da prestazione era l’orizzonte di ogni iniziativa. Solo un filmato era riuscito a rappresentare una situazione diversa. Tutti infermi, chi con la febbre, chi con arti ingessati, ma tutti contenti perché in tale circostanza i genitori erano andati a trovarli e avevano portato loro un regalo!

Ma che cosa vedono questi nostri giovani nella vita? Che cosa ci stanno chiedendo? Quelle armi posate sul banco sono come un grido, una domanda di aiuto. Il grido di una generazione che forse chiede qualcosa di estremamente semplice, adulti che li educhino. Scriveva don Giussani negli anni 90: “l’idea fondamentale di una educazione rivolta ai giovani è il fatto che attraverso di essi si ricostruisce una società; perciò il grande problema della società è innanzitutto educare i giovani”. E già nel ’77, rivolgendosi agli insegnanti, aveva affermato: “l’educazione è una comunicazione di sé, cioè del proprio modo di rapportarsi con il reale”.

Ci provoca, don Giussani. Perché ci invita a non guardare i giovani come problema, ma piuttosto come risorsa per ricostruire (e nel nostro sentire questo non è scontato!), ma poi ci costringe ad alzare la “nostra” testa, per comunicare ai giovani noi stessi. Ed è qui che veramente la questione diventa seria e affascinante. Perché potremmo avere poche certezze, potremmo essere anche noi privi di energie, anche noi tentati dal nulla, anche noi delusi e frustrati, ma anche per noi è vero, come canta Vasco, che “niente dura, niente, niente dura e questo lo sai, però non ti ci abitui mai. Chissà perché. Chissà perché”.

Possiamo solo contare su questa irriducibilità: al nulla non riusciamo ad abituarci! Lo canta Vasco e lo percepiscono le migliaia di giovani (e non più giovani) che hanno riempito Rimini per il concerto di apertura del nuovo tour. E tanti di quei ragazzi emiliano-romagnoli erano gli stessi che nei giorni precedenti si erano spesi per aiutare chi era stato colpito dall’alluvione. Ragazzi che probabilmente avevano usato per organizzarsi le stesse chat che usano per darsi appuntamento in discoteca. Provocati dalla sofferenza degli altri, dal bisogno che vedevano, hanno preso badili e stivali e sono andati. È evidente che la realtà è capace di mettere in moto il cuore e le energie. E un cuore ridestato è sempre in ricerca.

A Dio il “compito” di intercettare la nostra ricerca, ma a noi quello di lasciarci continuamente provocare dalla realtà perché il desiderio non si spenga e gli occhi non si appannino. Su Dio possiamo contare! Ma in fondo anche sulla nostra voglia di esistere. È questo che possiamo consegnare ai più giovani.

Sponsorizzato

Ultime Notizie

Commenti recenti