19 Aprile 2024, venerdì
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Siamo di fronte a problemi immensi, ma vince chi fa innovazione!


A cura del Prof.Avv.Giuseppe Catapano


Augurarsi che il prossimo governo Meloni fallisca, significa non  amare l’Italia e non nutrire  alcuna animosità; si  deve sinceramente sperare che il primo governo di destra dal dopoguerra ad oggi sappia affrontare la difficilissima congiuntura che stiamo vivendo e che ci toccherà vivere, peggiorata, nei prossimi mesi. E anche che, nel farlo, riesca anche a risolvere qualcuno dei tanti problemi strutturali che il Paese si trascina da decenni. Peraltro, i primi passi della leader di Fratelli d’Italia, improntati alla cautela e alla sobrietà e accompagnati dalla utilissima evocazione del “senso di responsabilità”, fanno ben sperare. Inoltre, il mandato elettorale è pieno, sia sotto il profilo numerico che quello politico, non fosse altro per la sonora sconfitta degli avversari, non a caso arrivati al capolinea della loro contraddittoria storia. Per questo appaiono fuori luogo tanto la retorica antifascista che trasuda dai salotti intellò, televisivi e non, quanto l’indignazione preventiva che ha trovato il suo apogeo nell’occupazione del liceo Manzoni di Milano per contestare un governo che ancora non c’è.

Detto questo, ci sono molti limiti sia nella vittoria del destra-centro che nella prospettiva che essa ha aperto. Sarebbe bene che non venga considerato un atto di disfattismo analizzarli. Anzi, chi dovrebbe tenerne conto nell’impostare la sua azione è proprio Giorgia Meloni. Il primo limite è racchiuso nei numeri elettorali e nella loro traduzione in seggi. Rispetto 2018, la coalizione vincente ha preso 300 mila voti in meno, sicuramente ascrivibili all’aumento di ben 9 punti percentuali del numero degli astenuti . Questo porta la coalizione ad assommare solo il 26% dei consensi sul totale degli aventi diritto al voto. Partire con una dotazione di un italiano su quattro non rappresenta una gran base sociale per governare con forza il Paese.

Inoltre, non può e non deve sfuggire ad un’analisi rigorosa del voto il fattore “nuovismo”. Cioè il fatto che con la crescente volatilità del consenso elettorale, figlia dello scontento per i risultati ottenuti in cambio da ogni partito già testato alla prova del governo, nei cittadini è andata accentuandosi la tendenza a provare leader e forze politiche “vergini”. O vissute come tali. È stato così per Berlusconi, Prodi, Renzi, Grillo, Salvini. Salvo disamorarsi subito dopo averli provati nel cimento del governo. Una parte cospicua del bottino elettorale di Meloni e di FdI ha questa caratteristica. Non averlo a mente sarebbe per i beneficiati un grave errore, perché significherebbe avere in mano già il biglietto di ritorno prima ancora di aver fatto il viaggio di andata. Insomma, essere consapevoli che un conto è vincere le elezioni e un conto è governare – concetto che nel vecchio centro-destra faticava a entrare in testa – sarebbe già un punto di partenza importante perché potrebbe indurre ad innescare un virtuoso processo di legittimazione reciproca tra destra e sinistra. La cui mancanza è una delle grandi tare del sistema politico che si è formato dal 1994 in poi e uno dei principali generatori della più pericolosa delle tossine populiste, cioè l’anti-politica.

In termini di seggi, poi, salvo eventuali riconteggi il destra-centro può contare su un margine di 34 deputati alla Camera (235 rispetto alla soglia di maggioranza di 201), che allo stato delle cose appare tranquillizzante. A palazzo Madama tale margine è invece solo di 8 senatori (la quota di maggioranza è 104 e non di 101 come si dice erroneamente, perché vanno calcolati anche i senatori a vita), uno scarto non del tutto rassicurante. Anche perché, oltre alle solite transumanze, c’è da considerare che proprio tra i senatori si pescheranno diversi membri sia per il governo che per altri ruoli istituzionali, abbassando così il numero dei votanti appartenenti alla maggioranza.

Poi c’è il limite, di cui la premier in pectore è pienamente consapevole, derivante dal fatto che la coalizione vincente è un cartello elettorale e non una solida alleanza politica. Sarebbe noioso far qui l’elenco delle mille divergenze, anche su temi cruciali come quelli delle relazioni internazionali e della politica estera, che distinguono le forze politiche di maggioranza, e ancor più delle differenze caratteriali dei loro leader che finiscono per metterli ferocemente in contrapposizione. Nulla di sotterraneo. Tutto è emerso alla luce del sole, durante la campagna elettorale e subito dopo il voto. D’altronde, questo è il tratto che accomuna la vicenda politica italiana da Berlusconi in poi: per chi va al governo i problemi più gravi sono quelli di casa e i nemici peggiori sono gli amici. Per Meloni il più evidente si chiama Salvini, ma non è l’unico.

Già dalla scelta dei presidenti di Camera e Senato, dalla formazione e dalla guida delle Commissioni e dall’attribuzione degli incarichi parlamentari, se ne avrà un assaggio. E si capirà di quale stoffa è fatto il pragmatismo della prossima premier, di cui è indubbiamente dotata. Per esempio, ripristinare la vecchia e sana prassi dell’attribuire una delle due camere all’opposizione, sarebbe un atto di saggezza politica davvero apprezzabile. A maggior ragione il banco di prova sarà la formazione dell’esecutivo, esercizio su cui è facile prevedere si scaricheranno tutte le tensioni e le contraddizioni che attraversano il destra-centro, così come toccherà capire se ci sarà, e in quale direzione, l’assestamento di un sistema politico da tempo malato terminale e che le elezioni non hanno certo guarito.

Meloni è consapevole di avere a disposizione una classe dirigente mediocre e di dover soddisfare forti aspettative interne e internazionali. Per questo pare intenzionata a gestire con il Quirinale – e magari raccogliendo qualche consiglio di Draghi – le nomine ministeriali più delicate, così come sembra orientata a dire di no a nomi vecchi e impresentabili delle nomenclature, anche del suo partito. Di sicuro dalla composizione dell’esecutivo discenderà il primo giudizio dei mercati (per ora sospeso, ma lo spread arrivato quasi a 260 punti non è tranquillizzante) e delle cancellerie occidentali. Subito dopo saranno la manovra di bilancio e le scelte più immediate su crisi energetica e inflazione, da cui discendono il grado di probabilità (alto) e l’intensità (finora moderata) della recessione che potrebbe colpirci a cavallo dell’anno, a dirci se Meloni e il suo governo sapranno superare indenni il percorso a ostacoli che hanno di fronte. Di certo Bruxelles starà con gli occhi puntati su Roma. Sia perché non potrà permettersi di avere uno dei paesi fondatori che guarda più all’Ungheria di Orban e al cartello di Visegrad (pur in disfacimento) che al tradizionale asse franco-tedesco, specie in questa fase di recrudescenza della guerra scatenata dalla Russia. Sia perché avendo a suo tempo fatto del Next Generation Ue una scommessa sulla capacità dell’Italia di affrontare finalmente i suoi atavici problemi strutturali, non potrà permettere che le risorse del Pnrr vadano sprecate o spese per altri fini. Ma anche da parte di Washington ci sarà grande attenzione, specie se le prossime mosse di Putin dovessero mettere l’Italia di fronte a scelte di campo nette, senza margini di ambiguità.

Difficile fare pronostici. Il nuovo governo potrebbe effettivamente durare sei mesi – come ripete ossessivamente Calenda, sbagliando perché non è questo che ci si aspetta dal Terzo Polo – se le spinte centrifughe dentro la maggioranza si faranno pesanti (occhio che la smania di Berlusconi di recitare il ruolo del garante della coalizione rischia di rivelarsi più un problema che un aiuto). O anche se il peso dell’inesperienza della Meloni e dei suoi, e dei retaggi del loro passato, si dovesse rivelare maggiore di quello dell’entusiasmo e del realismo, che certo non le mancano. Oppure, viceversa, potrebbe consolidarsi e avanzare nel corso della legislatura, trovando paradossalmente nella epocalità dei problemi che si troverà ad affrontare più un vantaggio che uno svantaggio. Ripeto, le prime mosse saranno decisive. Da esse si capirà se lo sguardo del governo e del nuovo assetto politico sarà rivolto a quella parte del Paese che è in grado di portarlo fuori dal declino se solo gli sarà assicurata più libertà e meno vincoli. O se, al contrario, si penserà che occorrano massicce dosi di statalismo e sovranismo per affrontare i problemi.

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