19 Aprile 2024, venerdì
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Coronavirus,Quali sanzioni per datore di lavoro che non rispetta le regole?

 

Di cosa risponderà un datore di lavoro che non ha attuato le dovute misure generiche di prudenza per la tutela dei lavoratori a fronte del possibile contagio del virus Covid 19?

Prima di addentrarci sui possibili risvolti penalistici della questione va fin da subito chiarito che nel D.L. 17 marzo 2020, n. 18, il contagio sul lavoro è stato individuato come infortunio. In particolare, al secondo comma dell’art. 42, viene espressamente previsto che «Nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro» (e cioè sul luogo di lavoro, nel tragitto casa-lavoro ed in qualunque altra situazione di lavoro), «il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’INAIL che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni INAIL nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunistici gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati». Al contempo, l’art. 26 stabilisce che «Il periodo trascorso in quarantena con sorveglianza attiva o in permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva di cui all’articolo 1, comma 2, lettere h) e i) del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6, dai lavoratori del settore privato, è equiparato a malattia ai fini del trattamento economico previsto dalla normativa di riferimento e non è computabile ai fini del periodo di comporto».

Preso atto dell’intervenuta disposizione che chiarisce la natura del contagio sul lavoro come forma di infortunio, da intendersi alla stregua della disposizione contenuta nel D.P.R. 1124/1965, si caratterizza per un evidente approccio finalistico: ai sensi dell’art. 2 del predetto Decreto, infatti, l’infortunio è definito come l’evento «occorso per causa violenta in occasione del lavoro dal quale sia derivata la morte del lavoratore, un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale o un’inabilità temporanea assoluta che comporti l’astensione dal lavoro per più di tre giorni».

Più in generale, in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro (D. Lgs. 81/2008) e, più in generale, nel novero delle disposizioni finalizzate alla «prevenzione degli infortuni», la condotta omissiva atta a cagionare l’infortunio è idonea a costituire fonte di responsabilità penale a titolo di colpa per i delitti di lesione ed omicidio.

In tal senso, il datore di lavoro dovrà in tempi ristretti rivalutare il rischio sul lavoro, adottare pertanto le opportune cautele anti-contagio, in considerazione delle attività-mansioni interessate dagli adeguamenti introdotti.

Fatte le dovute premesse, chiarito che il contagio sul luogo di lavoro vale quale infortunio dal quale poter dedurre la responsabilità penale del datore di lavoro, tuttavia va chiarito che non è semplice accertare se il lavoratore abbia contratto il virus sul luogo di lavoro, proprio per la natura ubiquitaria del Covid-19.

Pertanto va denunciato qualsiasi contatto con casi sospetti onde rendere più semplice l’accertamento di eventuali responsabilità, laddove fosse necessario.

Come avviene l’accertamento della responsabilità penale?

Invero, da sempre centro del dibattito dottrinale e giurisprudenziale è l’accertamento eziologico, dal quale desumere la riconduzione dell’evento al di fuori di ogni ragionevole dubbio alla censurabile condotta omissiva del datore di lavoro e così facendo individuare il confine oltre il quale è possibile escludere la responsabilità penale del datore di lavoro per effetto della sussistenza del concorso di circostanze sopravvenute da sole idonee ad escludere l’evento ex art. 41 co. 2 c.p.

La teorica maggiormente condivisa e per la verità avallata dalla giurisprudenza maggioritaria (dalla nota sentenza Franzese del 2002) è quella della causalità naturale integrata dalla causalità scientifica e logica in base alla quale l’evento è eziologicamentericonducibile alla condotta del soggetto agente se tale legame eziologico (naturalisticamente accertato tra condotta ed evento) trova altresì un accreditamento scientifico (anche ove non si tratti di legge scientifica universale, dotata cioè di una bassa percentuale di verificabilità) nonché una causalità di tipo razionallogica che il magistrato è comunque tenuto a compiere in fase successiva alla disamina dell’accertamento scientifico, alla luce delle prove legittimamente acquisite al processo per il singolo caso in giudizio. Solo una volta compiuti questi tre accertamenti il giudice sarà in grado di escludere decorsi causali alternativi rispetto quella che afferma il collegamento causale tra condotta ed evento.

Fermo restando la difficoltà dell’accertamento penale della responsabilità datore di lavoro, è opportuno che lo stesso doti l’azienda e i dipendenti degli opportuni mezzi di protezione sanitaria non solo per un indiscusso senso civico ma anche per fronteggiare anticipatamente eventuali contestazioni per gli infortuni da contagio.

Come si combina il diritto alla salute ex art. 32 Cost. con le già avvenute rivolte negli istituti di detenzione italiani?

Il focus sull’accertamento eziologico da infortuni legati al contagio da Covid-19, può essere facilmente adattato alla questione nelle carceri italiane, dove si assiste ad una situazione di massimo allarme sanitario e di violazione del principio sancito all’art.32 della Carta Costituzionale.

Se si considera la circolare del 13.03.2020 con cui il capo del DAP aveva disposto “gli operatori di Polizia Penitenziaria in servizio presso le strutture penitenziarie, in quanto operatori pubblici essenziali, debbono continuare a prestare servizio anche nel caso in cui abbiano avuto contatti con persone contagiate o che si sospetti siano state contagiate”, poi sostituita con nuova circolare del 20.03.2020, in cui si è rettificato.

A tal punto mi risulta difficile comprendere come la precedente circolare, poi ripresa e rettificata nella circolare del 20.03.2020, possa attagliarsi con le previgenti disposizioni normative di diritto penale.

Infatti, chi, consapevole di essere positivo e contagioso si rechi volontariamente in luoghi affollati cagionando la malattia ad altre persone ben individuate, può essere ritenuto responsabile dei reati di epidemia colposa e dolosa ai sensi dell’ art. 438 c.p. che prevede “chiunque cagiona un’epidemia mediante la diffusione di germi patogeni è punito con l’ergastolo”.
Questa fattispecie è dolosa: in altre parole è richiesto che l’autore del reato, avendo nella sua disponibilità il virus, lo diffonda volontariamente. Il reato non è escluso nel caso in cui lo stesso soggetto sia infetto ed utilizzi la propria persona per la diffusione (cfr. Cass. Pen. n. 48014, 26.11.2019).
Se il fatto avviene per colpa la pena è ben più contenuta e si assesta fra uno e cinque anni di reclusione (art. 452 c.p.).

Il delitto di epidemia è fattispecie a condotta vincolata ed è dunque richiesto un preciso percorso causale nella verificazione dell’evento: è invero necessaria la “diffusione di germi patogeni”. In altre parole, il delitto in esame non può essere contestato a chi abbia tenuto condotte omissive, ad esempio, non comunicando a sanitari i propri sintomi o il proprio stato di positività (cfr. Cass. Pen. n. 9133, 28.02.2017).

Sebbene, si sia provveduto a rettificare i contenuti di una circolare che esponeva a gravi responsabilità penale l’intera collettività presente negli istituti nonché a pericoli per la propria salute, resta da considerare che le eventuali responsabilità pregresse sono valutabili tutt’ora e che attualmente tale corpo di Polizia è costretto a lavorare, mettendo a repentaglio la propria vita.

Infatti, gli agenti sono costretti a recarsi in servizio senza mezzi di protezione individuali che possano prevenire il suddetto contagio e senza poter frapporre, talvolta, tra loro e i detenuti la dovuta distanza di sicurezza, come si è avuto già di constatare durante le ben note rivolte dei soggetti ristretti, con gravissimo pericolo per la propria integrità fisica.

 

Come sarebbe possibile incentivare gli agenti a recarsi in servizio, evitando di strumentalizzare permessi 104 e condizioni personali per restare a casa, pur di autotutelarsi?

Ritengo che agli agenti di Polizia Penitenziaria che si siano contraddistinti nel sedare le rivolte negli Istituti Penitenziari, andrebbero riconosciute le più alte onorificenze, in considerazione dell’alto rischio affrontato a tutela della sicurezza collettiva, pur mettendo a repentaglio la propria incolumità.

Fermo restando, che dovrebbero esserci controlli più stringenti sui permessi 104, visto che sono stati con il nuovo decreto aumentati i giorni, da 5 a 12 e non vorrei fosse un modo per disincentivare a recarsi in servizio, creando situazioni gravi di disorganico sul lavoro.

Ritornando alla situazione in cui gli agenti sono costretti a lavorare, mi piacerebbe condividere con voi l’esperienza comune di gran parte degli agenti di Polizia Penitenziaria come grido di aiuto, rivolto alle dovute istituzioni.

“Stanotte, a fine turno 18/24 sono tornato a casa e, visto che oggi ero di mattina, ho dovuto stendere la mia bella mascherina (con annessa divisa, in quanto me ne resta solo una in dotazione) e “sanificarla” in maniera del tutto artigianale con una soluzione di alcool e disinfettante, perché non so per quanto tempo ancora dovrò riutilizzarla!

Il cordoglio ce lo possiamo anche mettere in quel posto, la realtà è che siamo abbandonati da coloro i quali abbiamo prestato giuramento. Io cammino a testa alta, per voi è un fallimento!

Mi sento solo di mandare un caloroso abbraccio a tutti i colleghi d’Italia, quelli che ogni giorno consumano i tacchi in sezione!

W LA POLIZIA PENITENZIARIA!” (MIMMO, Testimonianze del Gruppo Facebook, Sostenitori Polizia Penitenziaria).

a cura Avv. Giovanna Russo

 

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