18 Aprile 2024, giovedì
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Isil rimette in discussione le frontiere di Siria e Iraq

Si devono ancora considerare intoccabili le frontiere dello stato iracheno e di quello siriano imposte negli anni venti del secolo scorso dalle potenze vincitrici della prima Guerra mondiale che si spartirono le spoglie dell’impero ottomano?

Non sarebbe più giusto e realistico pensare alla spartizione dell’Iraq in coerenza con la suddivisione ottomana di quel territorio nelle provincie di Kirkuk (curda), Baghdad (sunnita) e Bassora (sciita), ciascuna dipendente dal potere imperiale ma comunque separate una dall’altra?

Non si potrebbe immaginare lo stesso per la Siria, con una spartizione del territorio tra sunniti e alawiti come d’altronde era stata già tentata dai francesi tra le due guerre mondiali?

Rischio balcanizzazione del Medio Oriente
Per ora solo l’Isil, Stato islamico dell’Iraq e del Levante, ha messo apertamente in discussione le frontiere tra i due paesi disegnate novanta anni fa dalla aristocratica inglese Gertrude Bell per stabilire le “zone di influenza” franco-britanniche.

L’Isil fa paura non solo agli sciiti, ma anche a settori del sunnismo che fino a ora l’hanno tollerato e perfino sostenuto. Prevale il timore, nella comunità internazionale, che una spartizione dell’Iraq o della Siria possa portare alla balcanizzazione della regione, coinvolgendo in una paurosa spirale anche altri paesi (Libano, Giordania, Arabia saudita).

Eppure esiste uno stato curdo “sempre più” indipendente (e che ha incamerato Kirkuk proprio in questi giorni) che sembra ora deciso a rompere il tabù dell’integrità territoriale. Il secolare conflitto tra sunniti e sciiti inoltre, è diventato, anche in Iraq una vera e propria guerra civile. La convivenza pacifica delle due storiche comunità dell’Islam nei due paesi appare, al momento, illusoria.

Iraq e Siria, stati federali 
Come fare, allora, per rimettere in piedi stati ormai travolti dalla frantumazione politica e religiosa, dal caos e dalla violenza?

L’illusione è che ancora una volta si cerchi di sacrificare la soluzione politica a quella militare. La sconfitta dell’Isil e di altre espressioni del fondamentalismo sunnita? Per il momento sembra questa l’ipotesi prevalente. Resta però il problema cruciale di un fondamentalismo che non è soltanto un’escrescenza fanatica di società sostanzialmente sane.

L’Isil, in particolare, non è una fotocopia di Al-Qaeda ma è, al contrario, un movimento di “insorgenti” con un obiettivo politico che non può essere sottovalutato: la rimessa in discussione degli stati nazione imposti dalle potenze occidentali nel primo dopo guerra e la creazione di una nazione araba sunnita (il califfato).Un movimento che contesta i valori dell’Occidente, ma anche i regimi autoritari e disuguali della regione.

Se s’intendono salvare l’unità irachena e quella siriana in una prospettiva democratica, è urgente consolidare con soluzioni appropriate stati federali, all’interno dei quali le diverse identità godano di ampia autonomia dal potere centrale e diritti espliciti all’uso equilibrato delle risorse, in particolare la grande risorsa petrolifera irachena. In Siria andrebbe sostituita la dittatura minoritaria di Assad con un regime pluralista e rispettoso delle varie identità.

In Iraq, l’attuale costituzione andrebbe rinforzata con precise regole che garantiscano alle diverse realtà etnico – religiose ( maggioranza sciita e minoranze curda e sunnita) una reale partecipazione al potere.

In altre parole: una sorta di quel “modello democratico libanese” che giustamente non piace ai teorici dello stato secolare dei cittadini, ma che è il solo, pur con alti e bassi, che ha comunque funzionato in Medio Oriente. Meglio democrazie zoppe che regimi dittatoriali.

Contenimento del califfato
Come fare? Se s’intende davvero realizzare in Medio Oriente un ultimo sforzo di pacificazione tra le due compagini storiche dell’Islam, occorre che gli Usa accettino il dato di fondo della attuale situazione e cioè che la principale minaccia alla pace in Medio Oriente non viene dall’Iran degli ayatollah bensì dall’estremismo sunnita. Questo deve essere combattuto, ma non solo sul piano militare, se si vuole bloccare il tentativo dell’Isil e di altri gruppi di imporre il califfato islamico e di esportare il terrorismo.

Da qui l’interrogativo di fondo: può oggi la diplomazia occidentale contribuire ad attivare una fase davvero nuova nella regione? Può compartire una soluzione che convinca non solo i governi sunniti allarmati dalla minaccia eversiva che nasce al loro interno e che sta penetrando i propri territori, ma anche le forze sciite della regione?

Di fronte a tanto sangue e dopo tanti errori, si sente l’esigenza di un ripensamento strategico delle alleanze politiche in Medio Oriente. Non è più tempo per generiche dichiarazioni, né per interventi dettati dalla sola urgenza. Per il momento, purtroppo, prevale il disorientamento. Come dimostrano le tante perplessità sulla politica estera del presidente statunitense Barack Obama e l’imbarazzato silenzio dell’Unione europea.

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