27 Aprile 2024, sabato
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L’anatocismo bancario successivo al 1° luglio 2000 è illegittimo se in contratto non è prevista l’eguale periodicità nel calcolo degli interessi, sia attivi che passivi

Nel caso di illegittima capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi da parte della banca, poiché effettuata prima del 1/7/2000 o poiché effettuata successivamente ma senza riconoscere eguale periodicità nel calcolo degli interessi attivi, non è dovuta capitalizzazione alcuna, nemmeno annuale.

La commissione di massimo scoperto, per essere valida, deve rivestire i requisiti della determinatezza o determinabilità dell’onere aggiuntivo che viene ad imporsi al cliente, e ciò accade quando sono previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo, sia la sua periodicità.

Ritenuta l’invalidità della pattuizione di interessi anatocistici, nel caso di mancata disponibilità di tutti gli estratti conto relativi al rapporto in contestazione, per il riparto dell’onere probatorio occorre distinguere due situazioni: laddove sia la banca ad agire per il pagamento ed il primo estratto conto sia a debito per il cliente, la ricostruzione dell’andamento del rapporto deve essere effettuata partendo dal saldo zero; nel caso invece in cui sia il correntista ad agire in ripetizione, la ricostruzione del rapporto è circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti conto, senza potere muovere dal saldo zero in caso di un primo estratto conto a debito per il cliente.

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Fatto

Promuovendo la presente controversia, […] espone di avere intrattenuto per anni con la Banca […] due rapporti di conto corrente bancario, caratterizzati dall’applicazione di clausole anatocistiche illegittime, dalla previsione di interessi usurari, dal pagamento di spese non contrattualmente dovute e di commissioni di massimo scoperto illegittime.

Pertanto, sulla base di una dettagliata perizia stragiudiziale affidata ad uno studio di commercialisti, chiede la condanna della banca alla restituzione della somma capitale di euro 349.410,04, oltre interessi, in quanto corrisposta indebitamente; e chiede altresì di risarcire il danno subìto dalla erronea segnalazione alla centrale rischi effettuata dalla banca in relazione all’andamento dei conti correnti.

Costituendosi in giudizio, resiste la Banca […], deducendo la legittimità delle condizioni praticate; comunque, la prescrizione parziale dell’azione restitutoria esercitata da controparte; in ogni caso, l’erroneità dei calcoli ex adverso, in quanto effettuati sulla base originaria di un saldo zero e non già sulla base delle risultanze del primo estratto conto prodotto e agli atti.

La controversia è istruita con una CTU affidata al dottor G.C., ed è decisa da questo Giudice, trasferito al Tribunale di Reggio Emilia il 11/4/2012, dopo avere disposto una integrazione del quesito proposto al perito dal giudice allora procedente e dopo avere inutilmente esperito un tentativo di conciliazione, nel rispetto dei termini di cui all’articolo 190 c.p.c.

Diritto

a) Come esposto in parte narrativa, sono sostanzialmente tre le questioni sostanziali oggetto della controversia: da una prima angolazione, la legittimità o meno delle condizioni praticate dalla banca; da una seconda angolazione, l’eventuale prescrizione parziale del credito restitutorio di […]; da ultimo, il conteggio di tale credito sulla base di un iniziale saldo zero ovvero sulla base delle risultanze del primo estratto conto agli atti.

Così ricostruiti i termini del contendere, per ciascuno di tali tre punti si osserva quanto segue.

a1) Con riferimento elle condizioni praticate dalla banca, è indubbio che, per quanto concerne il periodo precedente il 1° luglio 2000, non è possibile alcuna capitalizzazione degli interessi passivi, e ciò sulla base della ormai granitica giurisprudenza inaugurata dalla Corte di Cassazione nel 1999 e mai più disattesa nei 15 anni successivi, ed anzi ribadita più volte sia a sezioni semplici (Cass. n. 2374/1999, Cass. n. 3096/1999, Cass. n. 12507/1999, Cass. n. 6263/2001, Cass. n. 1281/2002, Cass. n. 4490/2002, Cass. n. 4498/2002, Cass. n. 8442/2002, Cass. n. 14091/2002, Cass. n. 17338/2002, Cass. n. 17813/2002, Cass. n. 2593/2003, Cass. n. 12222/2003, Cass. n. 13739/2003, Cass. n. 4092/2005, Cass. n. 4093/2005, Cass. n. 4094/2005, Cass. n. 4095/2005, Cass. n. 6187/2005, Cass. n. 7539/2005, Cass. n. 10599/2005, Cass. n. 10376/2006, Cass. n. 11749/2006, Cass. n. 11466/2008), sia a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. n. 21095/2004, Cass. Sez. Un. n. 24418/2010), precisando poi che la banca neppure puo’ invocare l’istituto dell’overruling a tutela di un suo incolpevole affidamento, trattandosi di mutamento di giurisprudenza riguardante la materia sostanziale e non processuale (Cass. n. 20172/2013).

È qui appena il caso di ricordare, trattandosi di insegnamento ormai pacifico, che partendo dal dato normativo dell’art. 1283 c.c., norma imperativa ed eccezionale che consente l’anatocismo solo con il doppio limite di una domanda giudiziale o una convenzione posteriore alla scadenza, e di interessi dovuti da almeno sei mesi, è stato chiarito che gli usi contrari richiamati dalla norma e che alla stessa possono derogare, sono usi normativi e non negoziali.

Ciò posto, è stato evidenziato come non esista alcun elemento che autorizzi a parlare di usi normativi che consentano la capitalizzazione trimestrale degli interessi a carico del cliente di un istituto di credito: infatti, dal punto di vista oggettivo tale previsione è unicamente riconducibile alle norme interne dell’ABI (che hanno mera natura pattizia), e l’inserimento nelle raccolte delle Camere di Commercio è una presunzione dell’esistenza di un uso e non già della sua natura normativa piuttosto che negoziale; da un punto di vista soggettivo, difetta in ogni caso l’elemento della opinio iuris ac necessitatis, posto che l’accettazione da parte della clientela di una capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi ed annuale di quelli attivi non è sentita come conforme al diritto oggettivo, ma solo come presupposto indefettibile per accedere ai servizi bancari, dato il suo inserimento nei moduli. La conclusione è che la previsione contrattuale della capitalizzazione trimestrale degli interessi dovuti dal cliente, è basata su un uso negoziale e non su norma consuetudinaria; e pertanto, tale previsione è nulla per violazione della norma imperativa dell’art. 1283 c.c.

Per quanto concerne invece gli interessi successivi al luglio 2000, il dato normativo consente la legittimità di una capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, ma solo a condizione che detta periodicità sia riconosciuta anche per gli interessi attivi (cfr. art. 25 comma 3 D.Lgs. 342/1999 di modifica dell’art. 120 D.Lgs. n. 385/1993, cd. Testo Unico Bancario; Delibera del CICR 9/2/2000; Corte Cost. n. 425/2000). Nel caso qui esaminato, invece, pur se la circostanza è oggettivamente molto singolare ed è la prima volta che si presenta all’esame di questo Giudice, risulta pacificamente che nel contratto stipulato inter partes non è prevista una pattuizione che consenta la capitalizzazione trimestrale degli interessi attivi (cfr. all. 8 e 9 fascicolo di parte attorea), e pertanto deve ritenersi illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi: è infatti in tal senso del tutto irrilevante che il contratto stipulato tra le parti sia racchiuso in un rogito notarile, circostanza sulla quale si è più volte soffermata la difesa della convenuta, poiché è evidente che anche i contratti che rivestono una forma pubblica debbono rispettare il contento delle norme imperative e soggiacciono alla disciplina della nullità nel caso di violazione di tali norme.

Tanto premesso, e chiarito come per tutta la durata del rapporto debba ritenersi illegittima la capitalizzazione trimestrale degli interessi passivi, il conteggio di tali interessi deve essere fatto senza capitalizzazione alcuna, nemmeno annuale (così, espressamente, Cass. Sez. Un. n. 24418/2010), e deve quindi sul punto essere accolta la domanda attorea.

Parimenti fondata è la pretesa dell’attore in ordine alla contestazione della validità della pattuizione relativa alle commissioni di massimo scoperto.

Sul punto, va innanzitutto premesso che, con la generica dizione di commissione di massimo scoperto, le banche, prima delle modifiche normative del 2009 (art. 2 bis DL n. 185/2008 conv. in L. n. 2/2009 e DL n. 78/2009 conv. in L. n. 102/2009) e del 2012 (DL n. 201/2011 conv. in L. n. 214/2011, DL n. 1/2012 conv. in L. n. 27/2012, DL n. 29/2012 conv. in L. n. 62/2012), hanno per molti anni utilizzato diversi modelli, che spaziavano dal pagamento di una somma percentuale calcolata sul fido accordato e non utilizzato (commissione mancato utilizzo), al pagamento di una somma percentuale sull’ammontare massimo del fido utilizzato (commissione massimo scoperto), alla combinazione di entrambi i modelli, parametrando l’utilizzo od il mancato utilizzo talvolta ad una durata minima e talvolta no, e ciò con riferimento talvolta anche ai fidi di fatto, cd. scoperture o sconfinamenti di conto corrente.

Tanto premesso in ordine alla mancanza di una nozione unitaria di commissione massimo scoperto, la giurisprudenza ha spesso ritenuto l’invalidità tout court dell’istituto in ragione della mancanza di causa (così Trib. Milano n. 4081/2011, Trib. Parma 23/3/2010, Trib. Torino 21/1/2010, Trib. Teramo 18/1/2010, Trib. Salerno 12/6/2009, Trib. Tortona 19/5/2008, Trib. Monza 7/4/2006 e 12/12/2005, Trib. Lecce 21/11/2005 e 11/2/2005, App. Milano 4/4/2003, Trib. Milano 4/7/2002).

Anche la parte della giurisprudenza, qui condivisa, che ha ammesso la teorica legittimità della clausola, in base all’inequivoco disposto dell’art. 117 TUB ha comunque ritenuto che la clausola stessa, per essere valida, debba rivestire i requisiti della determinatezza o determinabilità dell’onere aggiuntivo che viene ad imporsi al cliente, chiarendo che ciò accade quando siano previsti sia il tasso della commissione, sia i criteri di calcolo, sia la periodicità di tale calcolo (Tribunale Monza 22/11/2011, Tribunale Piacenza 12/4/2011 n. 309, Tribunale Novara 16/7/2010 n. 774, Tribunale di Parma 23/3/2010, Tribunale Teramo 18/1/2010 n. 84, Tribunale Busto Arsizio 9/12/2009, Tribunale Biella 23/7/2009, Tribunale Genova 18/10/2006, Tribunale Monza 14/10/2008 n. 2755, Tribunale Cassino 10/6/2008 n. 402, Tribunale Vibo Valentia 28/9/2005, Tribunale Torino 23/7/2003, App. Roma 13/9/2001, App. Lecce 27/6/2000).

Trattasi di soluzione che costituisce piana applicazione della norma di cui all’art. 1346 c.c., secondo cui ogni obbligazione contrattuale deve essere determinata o quanto meno determinabile, e più nello specifico dell’art. 117 comma 4 TUB, che impone la forma scritta ad substantiam per ogni prezzo, condizione od onere praticati nei contratti bancari.

In particolare, tale onere di specifica indicazione e determinazione è tanto più essenziale, quanto meno è definito e determinato l’istituto della commissione di massimo scoperto: posto, infatti, che non vi è alcuna definizione normativa e nemmeno scientifica o tecnico-bancaria della fattispecie, affermatasi nella prassi creditizia ed evoluta e modifica nel tempo, si rileva come anche la sua pratica applicazione da parte dello stesso sistema bancario sia difforme e non univoca.

La commissione di massimo scoperto è stata infatti diversamente definita o individuata, limitandosi alle due accezioni principali e più diffuse, come il corrispettivo per la semplice messa a disposizione da parte della banca di una somma, a prescindere dal suo concreto utilizzo (ed in tal senso si parla, a volte, anche di commissione di affidamento), oppure come la remunerazione per il rischio cui la banca è sottoposta nel concedere al correntista affidato l’utilizzo di una determinata somma, a volte oltre il limite dello stesso affidamento (nozione, quest’ultima, che sembra essersi imposta più di recente).

Da tale diversità di natura e giustificazione è derivata anche la sopra accennata diversità di metodologie applicative, dal momento che, in coerenza con il primo profilo della commissione, questa viene calcolata sull’intero ammontare della somma affidata, mentre nella seconda ipotesi il calcolo avviene soltanto sul massimo saldo dare registrato sul conto in un determinato periodo (sul periodo da prendere a riferimento si registrano, poi, le più svariate soluzioni, a volte prendendosi in considerazione il trimestre, ed a volte anche periodi ben più brevi, sino addirittura allo scoperto giornaliero). Ancora, manca l’univocità in ordine alla periodicità di calcolo delle commissioni di massimo scoperto, che in alcuni casi vengono computate dalla banca addirittura come un accessorio degli interessi, seguendo la medesima periodicità.

In sostanza, il termine commissione di massimo scoperto non è affatto riconducibile ad un’unica fattispecie giuridica, sicché l’onere di determinatezza della previsione contrattuale delle commissioni deve essere valutato con particolare rigore, dovendosi esigere, se non una sua definizione contrattuale, per lo meno la specifica indicazione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla (percentuale, base di calcolo, criteri e periodicità di addebito), in assenza dei quali non puo’ nemmeno ravvisarsi un vero e proprio accordo delle parti su tale pattuizione accessoria, non potendosi ritenere che il cliente abbia potuto prestare un consenso consapevole, rendendosi conto dell’effettivo contenuto giuridico della clausola e, soprattutto, del suo ‘peso’ economico: in mancanza di ciò, l’addebito delle commissioni di massimo scoperto si traduce in una imposizione unilaterale della banca che non trova legittimazione in una valida pattuizione consensuale.

Ne consegue che non puo’ ritenersi sufficientemente determinata (a differenza, ad esempio, di quanto avviene per la pattuizione del tasso di interessi ultralegali), la mera indicazione, così come nel caso che qui occupa, di un tasso percentuale accompagnato dalla dizione ‘commissione di massimo scoperto’, senza ulteriori indicazioni sulla periodicità dell’applicazione, sui criteri di calcolo e sinanche sulla base di computo.

Pertanto ed in conclusione, è sin troppo evidente che, alla luce dei criteri e dei principi sopra delineati, tale indicazione sia nulla per indeterminatezza dell’oggetto, non essendo possibile in nessun modo, in base a questi elementi, cogliere i tratti essenziali dell’onere imposto dalla banca.

Discende, per chiudere sul punto, che il rapporto dare/avere tra le parti, deve essere ricostruito, così come argomentato dalla difesa di parte attrice, senza capitalizzazione degli interessi passivi e senza tenere presente le commissioni di massimo scoperto.

a2) Muovendo ora alla tematica della prescrizione, deve ritenersi che l’eccezione formulata dalla difesa di parte convenuta non sia accoglibile, in quanto inammissibile e comunque infondata.

Infatti, per un verso già puo’ opinarsi che trattasi di eccezione inammissibile perché tardiva, in quanto nel proprio atto introduttivo la difesa della banca si è limitata ad una generica ed apodittica affermazione che le pretese attoree erano “prescritte, inammissibili, infondate e indimostrate” (pag. 35 comparsa di costituzione e risposta), sovrapponendo categorie giuridiche tra loro del tutto distinte e non illustrando i termini dell’eccezione di prescrizione.

Solo in corso di causa, ed in particolare nelle memorie istruttorie e quindi dopo lo spirare delle preclusioni assertive, la convenuta ha tardivamente dato spessore all’eccezione di prescrizione, esplicitando che la stessa riguarda il decorso del termine decennale e si fonda, per un verso, sulla chiusura del conto numero … nel 1999, e quindi più di 10 anni prima della domanda giurisdizionale di ripetizione; per altro verso, sulla presenza di rimesse solutorie sul conto numero …, ciò che giustifica la decorrenza della prescrizione dalle singole operazioni e non già dalla chiusura del conto.

In ogni caso e comunque, anche a volere in mera ipotesi diversamente opinare e ritenere tempestiva l’eccezione, la stessa è infondata nel merito.

Sul punto, va innanzitutto premesso che il termine di prescrizione del diritto a conseguire la ripetizione delle somme versate per anatocismo, è quello decennale ordinario ex art. 2946 c.c., non applicandosi né l’art. 2947 c.c., che si riferisce al solo risarcimento del danno, mentre qui si tratta di obbligazione nascente dalla legge e non ex delicto, né l’art. 2948 n. 4, che riguarda la domanda di conseguire gli interessi maturati, non già la loro restituzione per indebito pagamento (Cass. Sez. Un. n. 24418/2010); e tale termine decorre dalla chiusura del conto ed allorquando si stabiliscono definitivamente i rapporti di credito e debito tra le parti (cfr. sempre Cass. Sez. Un. n. 24418/2010).

Ciò detto, da un primo angolo visuale si osserva che il conto numero … è stato estinto il 12/8/1999 solo formalmente e non sostanzialmente, atteso che il correntista non ha mai ritirato le somme di denaro, in quanto contestualmente ed immediatamente girate su un diverso conto corrente della stessa banca e della stessa filiale e proseguendo con le linee di credito già concesse, ciò che comporta non già una vera e propria estinzione del conto, ma piuttosto un mero mutamento del numero identificativo di un medesimo rapporto contrattuale che prosegue.

Da un secondo angolo visuale, va certamente dato atto che, nel caso di rimesse solutorie, la prescrizione decorre dalla data di annotazione in conto della singola posta, non già dalla chiusura del conto come nel caso di rimesse ripristinatorie della provvista (Cass. Sez. Un. n. 24418/2010, nonché Corte Cost. n. 78/2012); ma tuttavia, nel caso che qui occupa, la presenza di affidamenti sui conti correnti ed il fatto che il correntista abbia operato nell’ambito di tali fidi e nell’ordinario svolgimento del rapporto, impone di ritenere le rimesse meramente ripristinatorie della provvista e non già solutorie, con la conseguenza che la prescrizione decennale decorre dalla chiusura del conto e non già dalle singole annotazioni.

Consegue allora, concludendo sul punto, l’inammissibilità e comunque l’infondatezza dell’eccezione di prescrizione sollevata dalla difesa di parte convenuta.

a3) Fondata è invece la posizione della banca in ordine al fatto che il conteggio delle spettanze debba muovere dal saldo iniziale del primo estratto conto disponibile, e non già da un saldo zero.

In proposito, si osserva come, a seguito della statuizione di illegittima corresponsione di interessi anatocistici e nel caso di mancata disponibilità di tutti gli estratti conto relativi al rapporto in contestazione, si ponga il problema di capire quale sia il dato numerico di partenza dal quale ricostruire il rapporto dare/avere, e cioè se il primo degli estratti conti disponibili ovvero il cosiddetto saldo zero.

Ciò detto, ritiene questo Giudice come, sulla base dell’applicazione del riparto dell’onere della prova previsto dall’articolo 2697 c.c., occorra distinguere le due situazioni possibili.

In particolare, laddove sia la banca ad agire per il pagamento, la banca non puo’ sottrarsi all’onere di provare il proprio credito invocando l’insussistenza dell’obbligo di conservare le scritture contabili oltre dieci anni dalla data dell’ultima registrazione ex artt. 2220 c.c. e 119 TUB, in quanto tale obbligo, volto ad assicurare una più penetrante tutela dei terzi estranei all’attività imprenditoriale, non puo’ sollevarla dall’onere della prova piena del credito vantato anche per il periodo ulteriore: pertanto, spettando all’attore dar prova della fondatezza delle proprie ragioni, la ricostruzione dell’andamento del rapporto deve essere effettuata partendo dal saldo del primo estratto conto disponibile se a credito per il cliente; nel caso invece il primo estratto conto disponibile sia a debito per il cliente, occorrere ripartire dal saldo zero; nel caso in cui, dopo il primo estratto conto disponibile, manchino estratti conto successivi, la ricostruzione dell’andamento del conto corrente deve essere effettuata soltanto sulla base degli estratti conto effettivamente disponibili.

Nel diverso caso, coincidente con quello per cui è causa, in cui sia il correntista ad agire in ripetizione, l’applicazione dei sopra indicati principi generali sul riparto dell’onere della prova deve condurre a ritenere che la ricostruzione dei rapporti di dare/avere sia circoscritta al periodo in relazione al quale risultano prodotti gli estratti conto, senza potere muovere dal saldo zero in caso di un primo estratto conto a debito per il cliente (circa la necessità di muovere dal saldo zero allorquando sia la banca ad agire per il pagamento, cfr. Cass. n. 9695/2011, Cass. n. 1842/2011, Cass. n. 23974/2010; con specifico riferimento alla situazione in cui sia il correntista ad agire in ripetizione ed alla conseguente necessità di muovere dalle risultanze del primo estratto conto, per la giurisprudenza di merito cfr. App. Milano 6/12/2012, Trib. Nocera Inferiore 29/1/2013, Trib. Bari sez. dist. Monopoli 17/11/2011).

Pur se lucidamente argomentata dalla difesa di parte attrice e sostenuta da qualche sparuta pronuncia di merito, non puo’ quindi essere accolta la tesi per la quale, sulla base del cosiddetto principio di vicinanza della prova, deve sempre e comunque farsi ricadere sulla banca l’onere della produzione degli estratti conto, indipendentemente dal fatto che sia presentata dalla banca stessa domanda di pagamento ovvero sia proposta dal correntista domanda di ripetizione.

Infatti, il principio di vicinanza della prova puo’ e deve guidare l’interprete nei casi in cui la ricostruzione degli oneri probatori è oggettivamente dubbia (cfr. Cass. Sez. Un. n. 13533/2001 sul riparto probatorio tra creditore e debitore, nonché Cass. Sez. Un. n. 141/2006 sul riparto probatorio in ordine ai requisiti dimensionali dell’art. 18 Stat. Lav.), ma non puo’ certo essere utilizzato per scardinare le regole generali poste dall’art. 1697 c.c., così come invece accadrebbe nel caso che qui occupa.

b) Le conclusioni sopra raggiunte offrono le coordinate per risolvere la controversia sottoposta all’attenzione di questo giudice.

Deve infatti ritenersi che il rapporto dare/avere tra le parti vada ricostruito tenendo conto delle pattuizioni contrattuali, senza però conteggiare una capitalizzazione degli interessi passivi e le commissioni di massimo scoperto, muovendo dai dati numerici riferiti alle prime risultanze contabili disponibili e ritenendo che nessuna delle pretese restitutorie del correntista sia colpita in tutto o in parte da prescrizione.

Tanto premesso, la decisione puo’ essere resa sulla base della CTU, svolta con motivazione convincente e pienamente condivisibile, che ha adeguatamente replicato ai rilievi delle parti e che comunque non è stata oggetto di censura con riferimento ai calcoli numerici eseguiti sulla base delle coordinate sopra indicate, dalla quale il Giudicante non ha motivo di discostarsi in quanto frutto di un iter logico ineccepibile e privo di vizi, condotto in modo accurato ed in continua aderenza ai documenti agli atti ed allo stato di fatto analizzato.

Pertanto, deve concludersi che la domanda restitutoria attorea è fondata per la somma di euro 140.316,10 (cfr. pag. 23 e 24 integrazione di CTU, sub ipotesi 1); e la convenuta deve quindi essere condannata a pagare all’attrice tale somma, oltre interessi moratori al tasso legale dalla domanda, radicata con la notifica della citazione il 30/1/2010, al saldo.

Va invece rigettata la domanda attorea di ottenere il risarcimento per il presunto maggior danno derivante dalle segnalazioni alla centrale rischi ritenute illegittime – domanda in realtà sostanzialmente abbandonata in coso di causa in quanto neppure illustrata nelle difese conclusive – in quanto da un lato dette segnalazioni non possono essere ritenute illegittime, essendo relative alla situazione contabile all’epoca vigente tra le parti e non ancora oggetto di contestazione; dall’altro lato e comunque, anche a volere in mera ipotesi diversamente opinare, l’attore non ha provato, ed in realtà nemmeno offerto di provare o quantomeno dedotto nelle sue linee generali, il danno asseritamente subìto a seguito di tali segnalazioni, ciò che è dirimente per il rigetto della domanda risarcitoria.

c) Non vi sono motivi per derogare ai principi generali codificati dall’art. 91 c.p.c. in tema di spese di lite, che, liquidate come da dispositivo con riferimento al D.M. n. 55/2014, norma da utilizzare per tutte per le liquidazioni successive alla sua entrata in vigore (cfr. la giurisprudenza consolidata di Cass. Sez. Un. nn. 17405-6/2012, Cass. nn. 18473/2012, 18551/2012, 18920/2012, ritenuta costituzionalmente non illegittima da Corte Cost. ord. n. 261/2013, formatasi sotto il vigore del precedente DM n. 140/2012 ma sicuramente applicabile anche al successivo DM 55/2014), sono quindi poste a carico della soccombente parte convenuta ed a favore della vittoriosa parte attrice, tenendo a mente un valore superiore a quelli medi, stante il pregio delle difese e la difficoltà della controversia, per ciascuna delle quattro fasi di studio, di introduzione, istruttoria e decisoria, e tenendo però altresì a mente che lo scaglione di riferimento è quello relativo al decisum e non già al disputatum (art. 5 comma 1 DM n. 55/2014, nonché Cass. Sez. Un. n. 19014/2007, Cass. n. 3996/2010, Cass. n. 226/2011).

Per gli stessi principi in tema di soccombenza, anche le spese di CTU, già liquidate in corso di causa con i separati decreti di cui a dispositivo, sono definitivamente poste a carico di parte convenuta. 

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