ROMA – L’accordo commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, promosso negli scorsi mesi con il sostegno convinto della presidente della Commissione Ursula von der Leyen e della premier italiana Giorgia Meloni, continua a sollevare un’ondata di critiche, in particolare da parte delle opposizioni italiane. Nel mirino, una serie di misure considerate penalizzanti per l’industria europea e, in particolare, per il sistema produttivo italiano: dazi sui prodotti europei fino al 15%, un impegno vincolante all’acquisto di gas liquefatto americano per 750 miliardi di dollari, investimenti europei per 600 miliardi negli Stati Uniti, oltre all’aumento delle forniture di armamenti americani.
Secondo quanto denunciato da diversi esponenti politici italiani, l’intesa rappresenterebbe una cessione unilaterale agli interessi statunitensi, avallata da una Commissione europea accusata di scarsa trasparenza e da un governo italiano che, a dispetto della retorica sovranista, non avrebbe esercitato alcun peso negoziale effettivo.
Durissima la reazione del Movimento 5 Stelle. In una nota ufficiale, Chiara Appendino, vicepresidente del M5S, attacca frontalmente Meloni: «Scopre solo ora che è in corso da mesi una guerra commerciale? Ritiene sostenibile un accordo di cui ammette di non conoscere né i dettagli né i termini su gas e investimenti? Ma dove vive?». E ancora: «Mente, mente ancora, per coprire una disfatta firmata insieme a Von der Leyen. A pagarne il prezzo sono le imprese italiane e il nostro made in Italy. Stanno facendo affondare l’industria italiana come il Titanic, inseguendo gli interessi delle lobby delle armi e di Trump. Von der Leyen lasci subito».
Sulla stessa linea il Partito Democratico, che attraverso il deputato Marco Furfaro, responsabile Welfare nella segreteria nazionale, parla di «resa incondizionata» e accusa la presidente del Consiglio di aver tradito ogni promessa di tutela dell’interesse nazionale. «Dicevano ‘intesa zero a zero’. Assicuravano che Meloni avrebbe difeso l’Italia. E invece l’accordo con Trump è una disfatta totale: dazi al 15%, centomila posti di lavoro a rischio solo in Italia, 23 miliardi di export messi in pericolo». Furfaro aggiunge: «Non è stato un negoziato, ma una capitolazione: un obbligo a comprare gas, investire negli Stati Uniti e acquistare armi americane. Altro che sovranismo: Meloni si è trasformata in zerbino di un miliardario americano che vuole disintegrare l’Europa».
Al di là del linguaggio iperbolico e dei toni da campagna elettorale, le critiche toccano un punto cruciale: l’asimmetria dell’accordo tra Bruxelles e Washington, che sembra attribuire agli Stati Uniti il ruolo di beneficiario netto dell’intesa. La richiesta americana di impegni economici vincolanti in settori strategici – dall’energia alla difesa – ha riacceso un dibattito che interroga il futuro della politica industriale europea e il ruolo dell’Italia al suo interno.
In questo scenario, la posizione di Giorgia Meloni – che ha rivendicato pubblicamente la bontà dell’accordo, pur ammettendo di non esserne a conoscenza nei dettagli – appare oggi oggetto di contestazione sia sul piano politico che istituzionale. Aumenta così il pressing affinché il governo chiarisca i contenuti dell’intesa, i suoi impatti concreti sull’economia italiana e le reali contropartite ottenute.
Le opposizioni invocano un passaggio parlamentare per discutere pubblicamente i termini dell’accordo e i suoi riflessi sul tessuto produttivo nazionale. In particolare, si teme un colpo pesante all’agroalimentare italiano, già sotto pressione per le dinamiche internazionali dei prezzi e delle forniture.
Nel frattempo, l’intesa transatlantica continua a far discutere anche in ambito europeo. Il dossier, che ha contribuito a rafforzare la candidatura di Ursula von der Leyen per un secondo mandato alla guida della Commissione, potrebbe rivelarsi un terreno scivoloso nei rapporti con gli Stati membri, specialmente se dovessero emergere effetti negativi su occupazione, export e competitività industriale.
In un’Europa che si interroga sul proprio destino strategico tra atlantismo e autonomia, l’accordo con Washington rappresenta un banco di prova cruciale. Per l’Italia, in particolare, si tratta di decidere se esercitare un ruolo da protagonista o restare in silenziosa osservanza di scelte calate dall’alto.
