A cura del Prof. Avv. Catapano Giuseppe
Capisco perfettamente che la politica di coalizione sia fatta di compromessi, ma ciò che distingue una buona da una cattiva politica è proprio l’esistenza di paletti oltre i quali non spingersi, o la loro totale mancanza. Il difetto fondamentale del sistema politico italiano degli ultimi trent’anni sta proprio in questo: pur di vincere le elezioni si aggrega tutto e il contrario di tutto; pur di restare alla guida di un governo si accetta qualunque cosa. È così che fin dall’inizio si è caratterizzata la Seconda Repubblica, con il suo bipolarismo malato, ed è così che si è arrivati al bipopulismo, che della formula politica berlusconiana rappresenta la degenerazione assoluta.
Vedere Salvini che accoglieva Le Pen sul pratone di Pontida – con ciò abbracciando l’esponente più rappresentativa della destra antieuropeista, contrarissima a qualunque forma di solidarietà comunitaria sui migranti – proprio mentre Meloni volava a Lampedusa insieme a Ursula von der Leyen per tentare di dare una risposta comune ad un fenomeno epocale, è stato uno spettacolo imbarazzante. Ora, a parte il fatto che mancano 10 mesi al voto e che non si giustifica una campagna elettorale di questa lunghezza, ma su questioni di tale natura non è giustificabile una divaricazione politica dentro una maggioranza di governo. A meno che quelle due posizioni inconciliabili non alberghino entrambe anche in Meloni e, soprattutto, nel suo partito. Vorrebbe dire che la dicotomia è diffusa anche lì. Come starebbe a dimostrare l’ennesimo rendez-vous meloniano, soltanto qualche giorno prima, con l’ungherese Orban, che insieme al polacco Morawiecki (altro alleato strategico di palazzo Chigi), è il principale avversario di quella revisione dell’accordo di Dublino che è all’origine di tutti i contenziosi e che impedisce serie ed efficaci politiche redistributive dei flussi di migranti che proprio Meloni richiede a gran voce, persino dalla tribuna delle Nazioni Unite.
E’ il momento di uscire una volta per tutte dall’ambiguità?
Salvini va con gli estremisti, è esso stesso un estremista, e Meloni – e pure Tajani, sul quale pesa ancor di più la contraddizione di essere categorico nel respingere ogni suggestione proveniente da Le Pen, dai tedeschi di Afd o degli spagnoli di Vox, ma poi di non essere conseguente nei confronti dei suoi alleati – deve decidere da che parte stare, abbandonando ogni doppiezza. È vero che la linea atlantista del governo è nelle mani di una leader politica, Meloni, che all’indomani dell’annessione della Crimea chiedeva a gran voce il ritiro delle sanzioni alla Russia. Ed è vero che la “conversione” è avvenuta senza un minimo di dibattito e di analisi autocritica, il che rende legittimo dubitare della sua autenticità e affidabilità. Ma è altrettanto vero che in questo momento Meloni è attestata sulla posizione giusta, e ciò le va riconosciuto. Ma proprio per questo è indispensabile – oltre che utile per lei stessa, se non vuole farsi logorare più di quanto non sia già avvenuto – che apra senza indugio il chiarimento politico con Salvini. Aiutando così i tanti leghisti che non approvano la deriva del segretario ma non hanno il coraggio di dirlo pubblicamente, a prendere posizione. D’altra parte, o Meloni dimostrerà di aver sul serio perso per strada la sua doppiezza, o sarà travolta, prima in Europa e poi in Italia, dalle sue contraddizioni. Anche perché il suo disegno di uno spostamento a destra del Parlamento europeo è già abortito, con i popolari tedeschi che hanno rinunciato al disegno di allargare a destra la maggioranza che dovrà scegliere la prossima Commissione. La quale continuerà ad essere retta da una “coalizione Ursula” basata sull’asse tra popolari, socialisti e “macroniani”, cui al massimo potranno unirsi forze minori.
Ma lo stesso discorso vale anche per il Pd. È ormai evidente a tutti, anche a chi l’ha (strumentalmente) sostenuta nella corsa alla segreteria, che Schlein non è in grado di andare da nessuna parte. E che, paradossalmente, ciò dipende più per quel tanto che non dice che per quel poco che dice. Ma è soprattutto quel suo rendersi zerbino di Conte – concedendogli persino il lusso di snobbarla – che la dovrebbe rendere impraticabile non solo da parte della componente autenticamente riformista della sinistra, ma anche dal corpaccione governista del partito. Certo, a carico di tutto il Pd c’è la responsabilità storica di aver consentito ad un movimento populista nato nel crogiuolo delle parole d’ordine dell’antipolitica di potersi definire ed essere definito come di sinistra. L’esperta di armocromia continua ad inseguire i cinquestelle, che Conte ambisce a trasformare da movimento (che non gli si confà) a partito (ovviamente personale), nell’idea che il Pd debba fare il percorso inverso, dismettendo i panni del partito per diventare un movimento. Fino ad uno scambio di dna. Certo, di mutazione genetica del Pd si parlò anche quando Matteo Renzi conquistò la segreteria, ma in quel caso si trattava di linea politica e al massimo di stile, non di un cambio radicale di cromosomi.
Insomma, è venuto il momento di porre fine allo schema politico che erroneamente abbiamo chiamato di centro-destra e di centro-sinistra, definendo una nuova linea di discrimine che determini le alleanze: da un lato le forze populiste (e sovraniste), Lega e M5S, che complessivamente pesano tra il 25% e il 30% dei votanti, e dall’altro una “grande coalizione” che assommi tutti (o quasi) gli altri, accomunati dalla scelta atlantista e europeista. A ben pensarci è la stessa scelta già fatta in Europa con la “coalizione Ursula”. E a ben pensarci un segnale in questa direzione viene dal riemergere di quello che Stefano Folli ha chiamato il “partito dell’Europa”. Un soggetto informale, di cui possono essere considerati componenti personalità come Paolo Gentiloni, Mario Monti e per certi aspetti Mario Draghi, che non è alla ricerca di voti ma la cui opinione ha grande influenza, specie sui mercati finanziari. Meloni e i riformisti del Pd ci riflettano: l’unica vera chance che hanno è liberarsi dalle camicie di forza dei vecchi schemi politici e provare a giocare a tutto campo. In caso contrario, saranno Salvini e Conte a detenere le rispettive golden share. E il Paese ne pagherà il prezzo (altissimo).