27 Aprile 2024, sabato
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La barca Italia ha trovato la rotta giusta?

A cura del Prof.Avv.Giuseppe Catapano


Da un lato ci sono le sensazioni positive: la ferma posizione filoatlantica di Meloni nel contesto della guerra russo-ucraina, il rispetto dei vincoli europei di bilancio, la capacità di muoversi nel Mediterraneo con accordi che possono stabilizzare l’area e tentare di porre un freno all’immigrazione incontrollata. Temi fondamentali, sui quali i timori di qualche incertezza di troppo sono stati prontamente fugati. E non è poca cosa. Come probabilmente emergerà dall’incontro a Washington con il presidente Biden, tappa importante dell’accreditamento internazionale della Meloni. Dall’altro lato, c’è un’aspettativa andata finora delusa: questo non è un governo disruptive, come taluni auspicavano e talaltri temevano, ma un governo di “bonaccia”, che naviga a vista con un’agenda imposta dalle contingenze e non dettata dai progetti di medio-lungo termine. Ed è proprio in questo contesto di day-by-day che i casi scabrosi e i giochetti tattici finiscono col prendere il sopravvento, non fosse altro in termini percettivi. Se poi a tutto questo si aggiungono le polemiche inutili, tipo il tasso di fascismo che alberga in Giorgia Meloni, sollevate da chi non ha niente di meglio (o se si vuole di peggio) da dire, i piccoli e meno piccoli sbandamenti comportamentali di ministri e politici cui manca anche l’abc della postura istituzionale, lo scarso feeling con quei poteri che formano il Deep State (Quirinale, Consiglio di Stato, Corte dei Conti, Servizi segreti, Ragioneria dello Stato, ecc.), l’indulgere nella denuncia di complotti, nella ricerca di capri espiatori e in goffi tentativi di impostare i rapporti con Bruxelles come un braccio di ferro (vedi Pnrr e Mes) – che sono sempre segni di debolezza anche quando c’è un fondamento nelle proprie posizioni – ebbene, ne viene fuori un quadro che spiega il diffondersi delle domande sulla tenuta del governo da cui sono partito.

La verità è che ci sono alcuni elementi strutturali di precarietà da cui occorre partire per valutare come effettivamente stiano le cose. Il primo è l’illusione ottica del risultato elettorale del settembre scorso. Da un lato, la coalizione vincente assommava solo il 26% dei consensi sul totale degli aventi diritto al voto, e avere con sé un italiano su quattro non rappresenta certo una gran base sociale per governare con la necessaria forza il Paese. Dall’altro, più che di una solida alleanza politica si trattava di un cartello elettorale, attraversata da mille divergenze, anche su temi cruciali, e ancor più contrassegnata dai limiti e dalle differenze caratteriali dei leader, che finiscono per metterli ferocemente in contrapposizione. Tutto già emerso durante la campagna elettorale e subito dopo il voto – basti pensare alla spaccatura su La Russa presidente del Senato – e consolidatosi con il passare del tempo. Certo, questo è il tratto che accomuna tutta la vicenda politica italiana da Berlusconi in poi – per chi va al governo i problemi più gravi sono quelli di casa propria e i nemici peggiori sono gli amici – ma il fatto che Meloni non faccia eccezione è un’aggravante, non un’attenuante. Dunque, il governo è meno forte di quel si è voluto credere, e questo limite pesa strutturalmente. A ciò si aggiunga la tendenza fortemente accentratrice della presidente e il suo stato di perenne tensione nervosa, fino al limite della tenuta psico-fisica. Cosa che si è riflessa su i suoi rapporti con la stampa, e di conseguenza con l’opinione pubblica.

Il secondo ordine di problemi strutturali è di natura strettamente politica. Si pensi solo al fatto che la coalizione di governo sconta una contraddizione clamorosa: il partito di maggioranza relativa è una forza di destra con a capo una leader che andando al governo si è trasformata, per stato di necessità ma con sincera onestà intellettuale (nonostante qualche rigurgito), in una leader moderata e centrista; mentre la seconda forza, la Lega, è un partito di centro con alla testa un leader sguaiatamente di destra che l’ha collocato su posizioni e in alleanze europee estreme, totalmente inaccettabili per il terzo partito della coalizione, Forza Italia. Il quale, già prima della scomparsa di Berlusconi e a maggior ragione dopo, era ed è privo di bussola e di leadership politica, debolezza che è inevitabilmente destinata a scaricarsi sul governo.

A questo si aggiunga la mancanza, sul fronte opposto, di un’opposizione seria e rigorosa. Cosa, questa, che solo gli stolti possono considerare positiva per la navigazione del governo, che invece avrebbe bisogno di un pungolo derivante da un’agenda alternativa. Non c’era e non c’è da attendersi nulla dai 5stelle, tanto più ora che sono guidati (si fa per dire) da un notabile che si è fatto tribuno del popolo. Ma dal Pd sì. O quantomeno da quella parte riformista e dotata di cultura di governo – a mio avviso maggioritaria, ma priva della coscienza di esserlo e dunque della coerenza politica conseguente – che invece ha lasciato campo libero al radicalismo un po’ stereotipato e un po’ frivolo di Elly Schlein. Siamo ancora fermi a dove Enrico Letta aveva fallito: il miraggio del “campo largo”. Questa volta a “geometria variabile”, cioè un cartello di forze diverso a seconda dei temi, si precisa. In realtà, siamo al sempiterno inseguimento di Conte, nella convinzione che si tratti di un alleato naturale e non di un soggetto politico impraticabile, e quindi un avversario a cui sottrarre voti.

Questo scenario azzera la pericolosità del Pd, e delle opposizioni in generale, ma non per questo riduce i rischi di un inciampo per il governo. Magari, per intanto, sotto forma di rimpasto. Cosa che per la presidente del Consiglio rappresenta un’occasione al tempo stesso golosa – ha una voglia matta di liberarsi di alcuni ministri di cui è ampiamente insoddisfatta – e pericolosa, perché le crisi pilotate sono sempre dei punti interrogativi, situazioni che sai come partono e non sai come finiscono. Anche perché chi fa conto che dopo il trio Dini-Monti-Draghi siano esauriti i nomi di gran lignaggio nel taccuino di Mattarella per eventuali governi di transizione, si sbaglia di grosso.

In conclusione, gli italiani vanno in ferie avendo la sensazione che la barca Italia non rischia di affondare, ma neppure che abbia trovato finalmente la rotta giusta. E sapendo che, come al solito, saranno i fatti economici ad avere la prevalenza su tutto. Un fronte dal quale arrivano segnali contrastanti: fin qui siamo andati meglio del previsto, anche perché si è evitata la crisi energetica che si temeva, ma tra l’inflazione che si consolida (anche se più intorno al 6% che all’8%) e impone una politica monetaria restrittiva, la produzione industriale che frena e i venti di recessione che spirano in Europa e negli Stati Uniti, la seconda parte dell’anno e le prospettive per il prossimo si sono fatte meno rosee. Ma ciò che più importa, ai fini della tenuta del governo, è avere consapevolezza che si è chiusa la stagione che l’ex ministro dell’Economia, Giovanni Tria, ha definito “dell’euforia”, e si è (ri)aperta quella delle politiche di bilancio di contenimento. Ergo la prossima manovra dovrà inevitabilmente essere all’insegna dei tagli di spesa, cosa che finirà con l’acuire le tensioni e le divergenze all’interno della maggioranza di governo, perché costringerà le forze politiche a rinunciare a molte delle promesse, specie in campo fiscale, di cui si sono fatte portatrici. Inoltre, rischiano di aumentare le frizioni con l’Europa, visto che tra la riforma del Patto di Stabilità e il costo delle politiche di transizione (ambientale, energetica, digitale) – questioni a cui si aggiungono i nostri problemi specifici, dai ritardi nell’attuazione del Pnrr alla mancata approvazione del Mes – sono tanti e decisivi i fronti su cui sarà difficile mantenere la compattezza politica interna evitando di rompere con Bruxelles.

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