25 Aprile 2024, giovedì
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Meloni: ”Draghi style”

A cura del Prof. Giuseppe Catapano

Meloni vive il paradosso di essere forte ed isolata: più cresce la sua forza tanto maggiore è la sua solitudine. Dando per scontato che in un governo di coalizione il conflitto tra alleati è fisiologico, qui però si rischia di entrare in una dimensione patologica. E le nomine che il governo  nelle società a partecipazione pubblica – che peraltro sono le più grandi e strategiche del nostro capitalismo – rischiano di rappresentare il detonatore del conflitto. Salvini e Berlusconi, infatti, pretendono un tavolo non di sola consultazione, mentre Meloni intende riservarsi tutte le decisioni in solitaria dopo aver raccolto i loro desiderata. A questo punto, se replicherà il “Draghi style”, le probabilità di scontro, specie con il segretario della Lega, saranno altissime. Ma se cederà e si siederà al tavolo spartitorio, oltre a perdere un po’ di credibilità presso la fascia alta dell’opinione pubblica – che nella gran parte dei casi non l’ha votata, ma la osserva con attenzione e un certo compiacimento – finirà comunque per dar fiato agli alleati-nemici, che saranno indotti da quella debolezza ad alzare la posta su molti altri fronti. A cominciare da uno davvero dirimente, quello della guerra russo-ucraina. 

Finora la postura della presidente del Consiglio è stata perfetta, tanto da rendere insignificante nel contesto euro-atlantico le intollerabili posizioni, di fatto pro Putin, di Salvini e Berlusconi. Ma il proseguire del conflitto, a cui corrisponde un crescere negli italiani del fastidio sia per il nostro coinvolgimento nelle forniture militari sia per le conseguenze economiche della guerra indurrà i due simpatizzanti di Mosca ad accentuare i loro distinguo. In questo senso suonano istruttive le parole dell’oligarca russo Konstantin Malofeev in un’intervista alla Stampa, secondo cui presto Salvini premerà per un cambio di posizione del governo sull’Ucraina. E i ripetuti riferimenti al pacifismo del leader leghista e di qualcuno dei suoi inducono a credere che quelle del fondatore del canale d’informazione ultraconservatore Tsargrad non siano (solo) parole spese per mettere zizzania in campo nemico.

Detto questo, per Meloni i banchi di prova decisivi saranno due, la gestione dei migranti e il Pnrr. Il primo problema, già grave per le morti che ci sono state e per la moltiplicazione degli sbarchi rispetto al passato, rischia di diventare esplosivo se la situazione in Tunisia si facesse incontrollabile. La presidente del Consiglio ha cercato un’alleanza con i tedeschi, ha ricucito i rapporti con Macron (peraltro debolissimo per le vicende interne alla Francia), ma fin qui ha tessuto poca tela in Europa. E per trovare un po’ di solidarietà potrebbe trovarsi costretta a cedere su altri fronti comunitari, a cominciare dal Mes (che avrebbe dovuto già da tempo accettare) e dal rinnovo del patto di stabilità Ue. Quanto al Pnrr, il ritardo che già si era accumulato con il governo Draghi non è stato ancora colmato, tanto che nei prossimi giorni rischiamo di non ottemperare ad una scadenza che ci farebbe perdere 19 miliardi. E se dovessero andare a pallino anche solo una parte degli investimenti previsti, rischieremmo la recessione nel breve periodo e il ritorno alla “crescita zero virgola” nel prossimo biennio-triennio. E in una fase di tassi al rialzo resi necessari dal persistere dell’inflazione (che non è più solo da offerta, cioè dipendente dai prezzi energetici, ma comincia ad essere anche da domanda, come negli Stati Uniti: su questo si veda la War Room di giovedì 23 marzo con Mario Baldassarri, Veronica De Romanis e Stefano Micossi) aumenta il costo del nostro debito pubblico e quindi si fa più complicata la sua gestione. Insomma, sul Pnrr ci giochiamo tutto, ma nel governo i soli consapevoli mi sembrano Meloni e il ministro Fitto. Il resto della compagnia parla d’altro.

Intanto non esiste l’opposizione al singolare, ma al plurale, e con diversità, almeno rispetto al Terzo Polo, del tutto insormontabili. In secondo luogo, l’effetto Elly che i sondaggi rilevano favorisce il Pd a scapito dei 5stelle in un gioco a somma zero: il perimetro del “campo largo” resta invariato. Si dirà: meglio, però, se è il Pd ad essere più forte. Sì, ma se per esserlo Schlein cannibalizza Conte rubandogli temi e parole d’ordine, che ce ne facciamo di un Pd grillinizzato? Se, per esempio, la nuova segreteria dem si spingerà sul terreno del pacifismo senza se e senza ma fino al punto da non votare più in Parlamento le forniture militari – posizione favorevole che Enrico Letta, pur con tutti i suoi limiti, ha tenuto saldamente ferma – proprio per rincorrere la spregiudicata posizione anti-Zelensky di Conte, il rafforzamento elettorale del Pd non ne farebbe comunque un’alternativa credibile di governo. E lo stesso sarà se l’ambiguità fin qui tenuta dalla neo-segretaria su questioni come i rigassificatori e il termovalorizzatore di Roma, rimarrà tale o peggio diventerà esplicita contrarietà.

Insomma, di un Pd movimentista che si trasfiguri fino a diventare a immagine e somiglianza dei pentastellati per inseguire il mantra del “torniamo ad ascoltare la gente”, l’Italia non ne ha bisogno. Così come non ha bisogno di una Meloni che non si mostri all’altezza della partita che ha voluto giocare. Ben vengano leadership femminili. Tuttavia quello che serve è portare al governo del Paese competenze, sensibilità, visione, innovazione che finora sono mancate. Altrimenti ci saremo inventati l’ennesima variante dello strabico bipolarismo all’italiana, che è destinata a non servire a nulla. E a durare poco.

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