A cura di Giuseppe Catapano
Ci sarà tempo e modo di fare un bilancio di Draghi capo del governo e dell’esecutivo che ha guidato – anche perché resterà in carica per 65 giorni fino al voto e almeno 30-40 dopo, e vista la dilatazione del concetto di “affari correnti” è facile immaginare che Draghi e i suoi saranno incombenti sulle elezioni – ma fin d’ora una cosa è certa: le ragioni strutturali della cronica ingovernabilità dell’Italia sono ancora tutte lì, nessuno le ha affrontate. Si potrà pensare che non fosse compito di un tecnico come l’ex presidente della Bce metterci mano, o viceversa ritenere, come faccio io, che pur senza scendere nell’arena elettorale Draghi avrebbe potuto (e dovuto) applicare anche qui il suo “whatever it takes” per il quale è diventato famoso. Rimane il fatto che questa legislatura riconsegna alla prossima l’impossibilità di assicurare al Paese governi stabili e duraturi, premessa fondamentale per dare solidità alla nostra economia, assicurare l’improrogabile modernizzazione e garantire una collocazione internazionale senza smagliature. E questo a prescindere dal risultato che uscirà dalle urne. Perché potete essere certi che il 25 settembre accadrà una delle seguenti due cose: non vincerà nessuno, e si riproporrà la necessità di trovare un super partes cui affidarsi (e non sarà Draghi); vincerà una delle due coalizioni, ma per fragilità intrinseca non sarà in grado di governare, stritolata dalla enorme complessità dei problemi, e quindi non durerà.
Quello che non si è ancora capito è che senza un radicale ripensamento del sistema politico e una strutturale riforma istituzionale, ogni sforzo, anche quello del Superman di turno, sarà vano. Insomma, l’Italia ha bisogno di entrare nella vera Terza Repubblica, evitando di commettere gli errori che caratterizzarono la fine della Prima Repubblica. Va definitivamente archiviato il bipolarismo, che per vent’anni ha prodotto il declino italiano, e che dal 2018 è diventato bipopulismo, la sua versione peggiore. Lo schema centro-destra contro centro-sinistra non ha funzionato, essendo basato sul presupposto non di aggregare forze omogenee ma di formare armate Brancaleone che hanno come unico obiettivo quello di battere elettoralmente la parte avversa. Questo meccanismo ha prodotto ingovernabilità fino al punto, nella sua ultima fase, di spianare la strada alla perniciosa ascesa del movimento 5stelle. I teorici del “uno vale uno” sono durati meno di quello che si poteva temere, ma abbastanza per far danno. Ora si tratta di sottrarre il Pd alla masochistica idea di continuare ad allearsi con costoro, così come vanno sottratti i moderati che albergano in Forza Italia e nella Lega (se non gli esponenti di partito, gli elettori) all’illusoria conquista della vittoria alle prossime politiche, sapendo che politicamente e programmaticamente – specie se si considera che la discriminante euro-atlantista – sono più le cose che li dividono da quelle che li uniscono. Per far questo, come predico da sempre, occorre la riforma in senso tedesco della legge elettorale (proporzionale, sbarramento al 5%), perché spingerebbe i partiti e le alleanze a scomporsi e ricomporsi, unendo verso il centro riformisti e moderati. Ma rimodellare il sistema politico non basta se si omette di ridisegnare gli assetti istituzionali, semplificando l’elefantiaca struttura del decentramento amministrativo – io abolirei le Regioni, istituirei macro-Province (al massimo una quarantina) e metterei a 5 mila il numero minimo di abitanti ai Comuni – e ammodernando la burocrazia centrale. Per farlo la strada maestra è quella di una Assemblea Costituente, che nel tempo massimo di un anno produca una riscrittura della nostra Carta fondativa.
Ovviamente, di qui al 25 settembre non sarà possibile fare alcunché. Si può solo auspicare che anche questi temi siano oggetto della campagna elettorale, pur temendo invece che sarà la solita solfa inutile. Ma questo dipende un po’ anche da noi, dalla società civile che ama dileggiare i politici – ed è fin troppo facile – ma poi non va a votare il referendum sulla giustizia, che pure avrebbe potuto dare un segnale forte. Se così non sarà, allora vorrà dire che aveva ragione Charles De Gaulle, al netto dell’evidente sciovinismo, quando disse che “l’Italia non è un Paese povero, è un povero Paese!”.