È morto l’11 aprile scorso Alberto Franceschini, figura chiave della storia del terrorismo italiano e tra i fondatori delle Brigate Rosse insieme a Renato Curcio e Mara Cagol. La notizia del decesso, a lungo tenuta riservata per volontà della famiglia, è stata resa pubblica solo ora. Franceschini aveva 78 anni.
Nato a Reggio Emilia il 26 ottobre 1947, proveniva da una famiglia fortemente politicizzata: il nonno fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia nel 1921. In questo humus ideologico maturarono le sue convinzioni rivoluzionarie che, sul finire degli anni Sessanta, lo portarono a unirsi a Curcio e Cagol nella trasformazione del Collettivo Politico Operai-Studenti in un’organizzazione armata. Era il 1970 e nasceva così il nucleo originario delle Brigate Rosse.
Le prime azioni—sabotaggi, sequestri-lampo e propaganda armata—aprirono la strada a un’escalation di violenza che avrebbe sconvolto il Paese per oltre un decennio. Tra gli episodi più noti a cui Franceschini fu direttamente collegato, il sequestro del giudice Mario Sossi, avvenuto nel 1974 a Genova, e l’omicidio dei militanti missini Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola, uccisi nello stesso anno in una sede del MSI a Padova.
La sua parabola criminale si interruppe bruscamente il 5 settembre 1974, quando venne arrestato assieme a Curcio in una cascina nei pressi di Pinerolo. L’operazione fu condotta dai carabinieri del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa grazie all’infiltrazione dell’ex missionario Silvano Girotto, soprannominato dai media “Frate Mitra”. L’arresto segnò il primo successo tangibile dello Stato nella lotta contro il terrorismo rosso.
Condannato a oltre 60 anni di reclusione per banda armata, sequestro di persona e omicidio, Franceschini si dissociò ufficialmente dalla lotta armata nel 1982. Venne scarcerato dieci anni dopo, nel 1992. Negli anni successivi si trasferì a Roma, dove intraprese un nuovo percorso professionale: lavorò in una cooperativa legata all’Arci, impegnata nell’inserimento sociale di migranti e detenuti.
Il suo nome è tornato a far discutere nel febbraio 2024, quando è stato riconosciuto dalla Digos durante una manifestazione a Milano in memoria di Alexei Navalny.
La famiglia ha scelto la via della discrezione: nessun necrologio, funerali in forma privata. “Era malato da tempo”, hanno riferito persone a lui vicine. Eppure, la sua figura resta indissolubilmente legata a una delle stagioni più buie e complesse della storia repubblicana.
Un’eredità controversa
Renato Curcio, teorico della lotta armata e compagno di militanza di Franceschini, condivise con lui la fondazione delle BR e buona parte della loro evoluzione ideologica e organizzativa. Al suo fianco, Mara Cagol, moglie di Curcio, che fu tra le prime brigatiste addestrate all’uso delle armi. Morì nel giugno 1975 in uno scontro a fuoco con i carabinieri, pochi mesi dopo l’arresto del marito.
L’epoca delle Brigate Rosse si inserisce nel contesto più ampio degli “anni di piombo”, un periodo, tra la fine degli anni Sessanta e la metà degli Ottanta, segnato da terrorismo politico, attentati, stragi e repressione. In quegli anni, gruppi come le BR e i NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari) furono protagonisti di un conflitto interno che fece oltre 400 morti e migliaia di feriti.
Le Brigate Rosse non furono mai formalmente sciolte, ma si disgregarono progressivamente a partire dagli anni Ottanta. Nel 1987, il nucleo storico annunciò una “sospensione strategica delle attività”. Alcune sigle legate all’esperienza brigatista proseguirono sporadicamente fino ai primi anni Duemila. L’ultimo attentato riconducibile a gruppi ispirati alle BR risale al 2002, con l’omicidio del giuslavorista Marco Biagi.
Secondo i dati dell’Osservatorio sulle Vittime del Terrorismo, le Brigate Rosse furono responsabili di almeno 86 omicidi e oltre 450 feriti tra il 1970 e il 1988, senza contare i sequestri di persona e i danni economici e sociali provocati dagli attentati.
Con la morte di Franceschini scompare uno dei principali protagonisti – e testimoni – di quella stagione tragica. Un periodo che, a distanza di decenni, continua a interrogare la memoria collettiva e il senso della nostra democrazia.