Negli Stati Uniti si riaccende la polemica sull’immigrazione dopo una dichiarazione destinata a far discutere. Todd Lyons, direttore ad interim dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement), ha proposto di riformare radicalmente il sistema delle espulsioni, ispirandosi… ad Amazon. Sì, proprio il colosso dell’e-commerce noto per la velocità e la precisione delle sue consegne.
Durante un’intervista, Lyons ha affermato: “Dobbiamo iniziare a trattare questo processo come un’attività commerciale. Come Prime, ma con gli esseri umani”. L’idea sarebbe quella di costruire una rete logistica capillare e rapida, che raccolga i migranti in attesa di espulsione e li rimpatri con la stessa efficienza con cui Amazon consegna pacchi in tutto il Paese.
Secondo Lyons, il sistema attuale è troppo lento, inefficace e frammentario. L’obiettivo sarebbe dunque trasformare le operazioni di ICE in una “macchina oliata”, capace di garantire tempi certi e meno sprechi. “Immaginate camion che raccolgono i migranti da vari punti, li trasferiscono in centri di elaborazione e poi li accompagnano fuori dal Paese — tutto questo con una precisione logistica simile a quella di una catena di distribuzione moderna”, ha spiegato.
Il paragone ha però sollevato un’ondata di critiche, sia sul piano etico che politico. Trattare gli esseri umani come pacchi da spedire, secondo molti osservatori, è una deriva disumanizzante e pericolosa. Organizzazioni per i diritti civili hanno definito le parole di Lyons “inquietanti”, accusando l’ICE di ridurre i migranti a meri numeri da smaltire.
Anche nel mondo politico la reazione non si è fatta attendere. Mentre alcuni esponenti conservatori hanno applaudito alla proposta come un tentativo di razionalizzare il sistema, numerosi democratici hanno denunciato un linguaggio “freddo e industriale” applicato a persone spesso in fuga da guerre, povertà o persecuzioni.
La dichiarazione di Lyons si inserisce in un contesto già teso: negli ultimi mesi, il dibattito sull’immigrazione è tornato centrale nel discorso politico americano, complice l’approssimarsi delle elezioni presidenziali e l’aumento degli ingressi irregolari al confine sud.
In un Paese che fatica da decenni a trovare una riforma migratoria equilibrata, l’idea di applicare il modello “Prime” alle deportazioni appare, se non altro, sintomo di una crescente spinta verso la gestione manageriale — e disumanizzata — di uno dei temi più complessi e delicati del nostro tempo.