27 Aprile 2024, sabato
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NELLO STUDIO DI PIER PAOLO PASOLINI


Cronaca di Andrea Mancini
Roma, zona Eur
Era un uomo particolare, Pasolini, lo racconta bene Bernardo Bertolucci che da ragazzino gli aprì la porta, chiudendola subito dopo e dicendo al padre – il grandissimo Attilio Bertolucci -: “Babbo, c’è un ladro!”. Lui non si scompose e gli disse: “Fallo entrare, è Pasolini!”
A Pasolini sono dedicate alcune giornate, a San Romano (Montopoli), dove l’Arco di Castruccio ha invitato due dei maggiori esperti della vicenda umana del poeta. Il 2 aprile alle 16 e 30 al Convento Francescano di San Romano ci sarà Stefano Casi, direttore artistico di Teatri di Vita a Bologna, autore di un premiatissimo libro su “I teatri di Pasolini”, mentre il 9 aprile alle 17 e 30, nello stesso convento, ci sarà Roberto Villa, fotografo di una bellissima mostra su “Gli Orienti di Pier Paolo”, a partire dai mesi passati sul set di “Il fiore delle Mille e una notte”, tra lo Yemen e la Persia. La mostra resterà aperta dal 9 al 24 aprile.
Ho conosciuto Pasolini nei primi anni 70, era venuto a Firenze per un incontro con il suo pubblico, che ricordo imponente. Pier Paolo era una specie di rock star e questo gli piaceva molto. Le sue parole – nonostante una voce quasi angelica – tagliavano l’aria, riusciva a tenere in pugno le persone, pur trattandole con il rispetto estremo del grande maestro. Non aveva nulla dell’intellettuale arrogante, almeno questa fu la mia impressione. Pochi anni dopo sarebbe stato ucciso in modo orribile, senza pietà. La morte, soprattutto quella provocata è sempre tremenda, quella di Pasolini aveva in più il disprezzo per una persona così grande, dolcissima.
Quando trent’anni dopo, insieme al Centro cinema Paolo e Vittorio Taviani voluto dal Comune di San Miniato e alla Fondazione Aida di Verona, abbiamo organizzato una grande mostra su di lui, ho cercato di costruire un omaggio che tenesse conto di tutto questo, che tornasse a studiarne i documenti, la storia. Per questo mi parve giusto privilegiare gli inizi bolognesi, gli studi con Roberto Longhi, la pittura. Allestii un’esposizione (anche in tutti gli spazi offerti dalla via Angelica, di fianco alla chiesa di San Domenico a San Miniato), usando materiale di grandissimo valore iconografico. Foto di scena, ad esempio di Angelo Novi, assolutamente inedite, dedicate ad uno dei film più belli di Pier Paolo, “Vangelo secondo Matteo”, che gli valse un’accusa di vilipendio alla religione cattolica, mentre contemporaneamente riceveva il plauso e anche qualche prestigioso
premio dalla stampa vaticana e da tanti sacerdoti, a partire da don Giovanni Rossi, della Pro Civitate Christiana di Assisi, che aveva in qualche modo ispirato il capolavoro pasoliniano. Tra le foto c’erano anche i semplici ingrandimenti dei provini, con la scelta fatta dallo stesso regista – un materiale di eccezionale pregio, che entrava direttamente nel laboratorio dell’artista. C’erano anche foto bellissime, che raccontavano più di qualsiasi saggio, la cultura pittorica di Pasolini. Tra l’altro ci permettevano di rileggere in modo nuovo anche i film precedenti, quelli più provocatori, come il primo, bellissimo, “Accattone”, dove il protagonista Franco Citti fa il mestiere di magnaccia, ma è rappresentato come un Cristo dei pittori primitivi senesi. Oppure “La ricotta”,
altro capolavoro di Pasolini, dove la derivazione pittorica è ancora più evidente. Un regista (Orson Welles) vuole ricostruire la deposizione del Rosso Fiorentino, conservata al Museo Guarnacci di Volterra, gli attori – sempre con la magnifica ironia del poeta – ne interpretano una versione filologica; solo uno di loro, un povero disgraziato, che rappresenta uno dei due ladroni, si apparta per mangiare una ricotta: lo farà morire soffocato dall’ingordigia.
Anche questo film, come tutti gli altri esposti in mostra – anche grazie a tutte le locandine e i manifesti pubblicitari -, era visto attraverso le immagini di riferimento, con una serie di
riproduzioni delle opere pittoriche che le avevano provocate, da Giotto a Caravaggio.
Alla mostra fu dedicato un bellissimo libro, firmato da me e da Pier Marco De Santi, storico del cinema, anche lui esperto di iconografia. Era un libro che indagava la “fulgurazione figurativa” di Pasolini con, tra l’altro, una toccante memoria scritta da Paolo e Vittorio Taviani.
La mostra girò molto, in tutta Italia, e anche all’estero, fino a che non la portammo persino a New York, con un nuovo libro, firmato da me e da Roberto Chiesi, direttore del Centro Pasolini della Cineteca di Bologna (frutto di un vastissimo materiale donato da Laura Betti, attrice simbolo di Pier Paolo e dalla nipote, Graziella Chiarcossi), edito da City Lights, la casa editrice di Lawrence
Ferlinghetti a San Francisco.
Nella Grande Mela, la celebrazione di Pasolini fu degna dei più grandi eventi, avevamo con noi Vincenzo Cerami e Gianni Borgna, due grandi amici di Pier Paolo, e furono programmate mostre e cicli di film (al Lincoln Center), conferenze e altre presentazioni. Ad una su “Medea”, intervenne anche Patti Smith, la “sacerdotessa maledetta”, anche lei davvero alla mano e semplicissima fan di Pier Paolo e di Maria Callas, la grande interprete di questa eroina, forse altrettanto maledetta.
Quella volta sono stato a New York quasi due mesi, allestendo tra l’altro un lavoro – “Pasolini /Trash” – nel tempio della ricerca teatrale, dove prima di me erano stati Tadeusz Kantor e Julian Beck, al La Mama di Ellen Stewart, anche lei conquistata dalle parole di Pasolini. Insomma, anche stavolta un grande progetto che fu accolto con straordinario interesse da centinaia di giovani americani.
Siamo adesso al centenario della nascita, io non amo queste celebrazioni, ma certo possono essere utili per riportare all’attenzione sul lavoro creativo di una artista, il suo cinema – fatto di opere provocatorie ma anche di veri e propri capolavori, degni di entrare in ogni storia del cinema. E poi tutto il resto, la poesia, i romanzi, la scrittura civile, che inaugurò la presenza degli intellettuali sulle prime pagine dei giornali, nei programmi televisivi di maggiore ascolto. Pasolini è in questo un iniziatore e dovrà essere riscoperto.
In questo senso anche le iniziative che sono prese da più parti, possono essere preziosi momenti di riflessione. Ad esempio quella di Montopoli, ci farà conoscere Stefano Casi, un lucidissimo storico del teatro: Pasolini comincia ad occuparsi di teatro fra la fine degli anni 50 e il 60, quando tradusse “Orestiade” di Eschilo per il Teatro Popolare Italiano di Vittorio Gassman e Luciano Lucignani, buttandosi, come lui stesso scrisse, “come un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra”. Seguirà un’altra iniziativa importante, stavolta dedicata all’Immagine, o meglio alle immagini realizzate da Roberto Villa, che seguì il regista in Oriente, quando nel 1974 girò l’ultimo capitolo della sua Trilogia della Vita. Anche stavolta immagini bellissime, che raccontano il gusto visivo del regista e il suo rapporto con un Oriente, che non considerava affatto “vicino”, come Godard, ma semmai ancor meglio fratello.

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