A cura di Ionela Polinciuc
Senza ombra di dubbio, la pittura è un mezzo espressivo atavico, parte inscindibile della natura umana, che trascende e supera il tempo.
Nato a Pozzuoli (NA), 5 marzo 1960, inizia la sua ricerca artistica, nel campo della pittura, nel 1980 a Bari, poco prima del conseguimento della maturità scientifica (1982).
Compie numerosi viaggi all’estero stabilendosi nel 1992 per due anni a Bruxelles. Dal 1994 vive e lavora a Roma dove nel 2003 fonda lo Studio E.M.P. (Experimental Meeting Point) studio d’arte, luogo di interscambio espositivo e confronto culturale e tecnico tra artisti di qualsiasi linguaggio.
Vincitore di numerosi premi, è stato invitato a diverse rassegne, anche internazionali.
Tra i protagonisti della pittura contemporanea, spicca per l’estrema riconoscibilità stilistica: la tecnica impiegata e le tematiche affrontate dimostrano uno studio e un’investigazione approfonditi, appassionati perché sinceri e mossi da un’esigenza emotiva viscerale, tra le pieghe della realtà e della psiche. Lui è Valerio De Filippis e lo abbiamo intervistato.
Valerio, come inizia la tua carriera e qual è il ricordo che custodisci con grande cura?
Iniziai a disegnare intorno ai nove-dieci anni: usando una penna biro, creavo storie a fumetti. Ricordo con emozione che in terza elementare, durante la ricreazione, più della metà dei miei compagni di classe mi accerchiava per guardarmi mentre disegnavo, anziché uscire dall’aula. Un altro bel ricordo riguarda una mia permanenza di qualche settimana in Veneto, in campeggio. Ci fu un concorso di pittura ed io feci un paesaggio con pastelli ad olio. Mi diedero il terzo premio. I partecipanti avevano un’età compresa fra i 12 e i 17 anni, ed eravamo in tutto circa 300 ragazzi. Io avevo 12 anni. Fino all’età di venti anni usai la tempera e la china, realizzai storie a fumetti e qualche quadro, dopo di che cominciai la vera pittura ad olio. Studiai su due libri, uno di solo testo e l’altro con testo e immagini. Non ho mai avuto maestri, studiavo da autodidatta, ma dipinsi per i prime sei anni ogni giorno con una media di dieci ore al giorno e mi appropriai della tecnica figurativa. La mia prima mostra personale fu nel 1982, avevo 22 anni. L’approccio professionale e il mio rapporto con il sistema dell’arte parte dal 2001, con le prime mostre importanti sia in gallerie private che in sedi istituzionali.
Valerio, importantissima mostra inaugurata il 23 settembre ed in corso fino al 23 ottobre. Parliamo del PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME. Potresti svelare più informazioni?
In questa mostra sono esposti quadri che partono dal 2008 al 2023.
L’interesse per la cibernetica, ovvero sul tema del post umano, nasce appunto nel 2008. La commistione tra uomo e protesi artificiali era per me estremamente interessante; così nacquero i primi Cyborg, ritratti corporei dove erano visibili delle strutture tecnologiche meccaniche molto sofisticate. Nel 2010 comincio a creare dei quadri più complessi, che vedono sempre questi corpi, questi cyborg con l’aggiunta di piccole aperture operate sul dipinto stesso attraverso le quali inserisco componenti prelevate da computer, cioè delle architetture elettroniche fatte di schede, transistor e microprocessori che vengono illuminati da ogni lato con dei led luminosi. La mostra in corso, a Roma, nella Galleria d’Arte Horti Lamiani Bettivò, prende il nome dal titolo di un quadro realizzato a cavallo tra il 2022 e il 2023 e cioè PROGETTO PER UN FETO BIONICO TRANSUMANO DEFORME.
Questo quadro nasce da una gettata di colore liquido su di una tavola posta in piano. La forma che si delineò sembrava un feto. E così lo trasformai in un esserino al cui interno, tramite apposite piccole finestre, si notano delle strutture elettroniche illuminate da led.
Il termine deforme non si riferisce soltanto ad una deformità fisica, essendo, nella mia fantasia, un esperimento, ma anche a una deformità morale ed esistenziale. Cercando di essere sintetico al massimo, il concetto è che la perdita del corpo biologico e della sua fragilità e la conseguente aumentata capacità sia di calcolo che di longevità ottenute grazie alla tecnologia, possano portare, a mio parere (parere del tutto intuitivo ed emotivo) ad un rapporto alterato col tempo e la morte, una perdita di orientamento riguardo al senso della vita. Il discorso dunque è sul transumanesimo e i suoi effetti sulla psiche: assisteremmo allo smarrimento, fino alla privazione, di quella tensione spirituale della quale la creatività non può fare a meno, che deriva proprio dal sentimento della finitezza, dal rapporto con lo spazio e il tempo. L’abbandono del corpo biologico, privato della sua corruttibilità, porterebbe ad un rapporto malsano e morboso con il tempo della vita, alla quale secondo me, ognuno è chiamato per scriverne e lasciarne un senso.
Hai già diverse esperienze espositive con le gallerie d’arte. Ma quali sono i tuoi progetti presenti e futuri?
La mostra è stata notata da alcune persone operanti nel sistema dell’arte e ho avuto diversi inviti a portarla in altre città, però vorrei aggiungere quadri nuovi sviluppando questa ricerca sullo stesso tema. Quindi, attualmente sto continuando nella realizzazione di nuove opere.
Dunque l’artista si fa portavoce delle istanze provenienti dall’ambiente psichico generale e ne agisce prima di altri le intenzionalità?
Certamente. Nella storia dell’arte possiamo dire che questa affermazione è ampiamente dimostrata. Parliamo della capacità precognitiva dell’artista, se ho capito bene la domanda. L’ipersensibilità dell’artista, unita alla dedizione, senza limiti di tempo, alla riflessione e alla creazione può portare a quello sguardo che riesce ad andare oltre i fatti oggettivi. Naturalmente questo è altrettanto vero, ad esempio, per gli scrittori di fantascienza sociologica, come George Orwell, Aldous Huxley, Philip Dick, ecc.
Il pittore lo fa creando immagini statiche, che è l’estrema sintesi di un concetto e di un’eventuale precognizione che può essere molto complessa. E’ dal rigore e dal valore di tale sintesi che scaturisce la potenza dell’opera.
Però, a mio parere, l’artista si fa portavoce suo malgrado, nel senso che non gli interessa, almeno nel momento della creazione, essere rappresentante di un pensiero che può essere ancora allo stato latente nell’ambiente sociale. Quando l’artista crea e produce un oggetto artistico, libro, quadro o scultura che sia, lo fa per una pura urgenza espressiva e per comprendere egli stesso qualcosa che ancora deve mettere a fuoco. Ed egli stesso può stupirsi di ciò che gli comunica il suo prodotto, in special modo se lavora usando la parte razionale solo nella tecnica, ma non nel pensiero.
Un messaggio da lanciare ai nostri lettori.
Mi riesce difficile dare messaggi scritti o detti. Io uso un medium artistico che è la pittura, andando anche oltre la pittura in quanto la contamino con oggetti, come dicevo prima, che sono architetture elettroniche, led, ecc.
Il messaggio è insito nell’opera, il bello è che si tratta sempre di un tipo di comunicazione criptica e misteriosa, mai definitiva e chiara. Sta all’osservatore tentare di decifrare il senso di tale comunicazione, ammesso che si possa decifrare.
Ecco, io direi che un’opera può essere interpretata soggettivamente e aggiungerei che lo stesso vale per il suo creatore, in quanto egli stesso non possiede alcuna verità dimostrabile.