A cura di Giuseppe Catapano
Ora, non c’è dubbio che già dalla scorsa legislatura Mattarella sia stato costretto, suo malgrado, a interpretare il ruolo di inquilino del Quirinale in modo, diciamo così, “interventista”. Sempre nei limiti previsti dalla Costituzione, in ciò aiutato dalla sua naturale prudenza e ritrosia, ma conscio che del fatto che la Carta gli assegna il compito di farsi “garante” dei supremi interessi della Nazione e del buon funzionamento delle istituzioni. Ma basta scorrere la cronaca politica a partire dall’esito delle elezioni del 2018 in poi, per trovare non solo più che giustificati, ma anche indispensabili, gli atti compiuti e le parole spese. Il Capo dello Stato non ha determinato lo svolgersi della vita politica – non poteva e non doveva farlo, e non lo ha fatto – ma è puntualmente intervenuto ogni qualvolta le circostanze richiedevano un’azione “protettiva”. Negli ultimi giorni lo ha dovuto fare ripetutamente. Per esempio, di fronte alla pericolosa rottura diplomatica che si stava consumando con la Francia sulla questione migranti, ha saggiamente ricucito il rapporto istituzionale con Macron, conscio della necessità di evitare un pernicioso isolamento dell’Italia in Europa. Per esempio, si è avvalso delle sue prerogative nel valutare gli atti di governo, sia avvertendo che sarebbe stato improprio, non sussistendo le ragioni di necessità e urgenza, inserire l’intervento legislativo sui limiti all’uso del contante nel cosiddetto “decreto aiuti” – fermo restando che si è guardato bene dall’entrare nel merito – sia consigliando in modo discreto ma fermo una serie di interventi correttivi al discusso (e discutibile) decreto anti-rave. Per esempio, ancora, ha ritenuto opportuno ricordare pubblicamente che la pandemia non è finita, incitando tutti alla “responsabilità” e alla “precauzione” di fronte ad alcune incaute dichiarazioni che finivano per ammiccare ambiguamente alle tesi “no-vax”. In particolare, ha sollevato dubbi sulle annunciate disposizioni che prevedevano un’amnistia per medici e personale sanitario non vaccinato come sull’abolizione dell’obbligo dell’uso delle mascherine in ospedale, provvedimenti che non a caso il governo ha poi accantonato.
Di fronte a questa postura del Quirinale, da una parte c’è chi si è messo a mugugnare sostenendo – magari non esplicitamente, ma facendo intendere o facendolo scrivere da qualche giornale – che quelle del governo erano scelte politiche al cospetto delle quali gli interventi della presidenza della Repubblica e la moral suasion da essa esercitata si configurano come indebite ingerenze, un tentativo se non di delegittimazione quantomeno di messa sotto tutela del governo Meloni . Non è arrivato a tanto Ignazio La Russa, intervenuto a difendere “la fermezza” quale carattere identitario del governo di destra-centro (con ciò dimenticando che il ruolo di garanzia proprio del presidente del Senato dovrebbe imporre di non schierarsi) ma certo le sue parole sono apparse come un esplicito dissenso tra la prima e la seconda carica dello Stato, cosa che ci si poteva e doveva risparmiare. Mentre dall’altra parte, a sinistra, si è voluto caricare di significato gli interventi del Quirinale, della serie “Mattarella ferma i fascisti”, finendo così per alimentare la tesi “vittimista” della destra. I più vivi complimenti a entrambe le fazioni.
Sono convinto, come dimostra la prudenza con cui si è mossa al drammatico G20 di Bali, che Giorgia Meloni sia la prima ad aver apprezzato la saggezza istituzionale di Mattarella e ad essere infastidita da questa duplice tendenza a tirarlo per la giacca. Ma il presidente del Consiglio deve andare oltre. E capire che se il Capo dello Stato è costretto a monitorare il governo è per via della sua già dimostrata propensione, pur in un solo mese di vita, alla faciloneria e all’improvvisazione. Finora si è data la responsabilità di tutto ciò a Matteo Salvini, alle sue fughe in avanti e al desiderio di recuperare il consenso elettorale perduto. Vero, ma Meloni deve ragionare anche sulla fragilità di gran parte della sua classe dirigente, come dimostra la vicenda delle improvvide dichiarazioni del sottosegretario alla Salute, Marcello Gemmato (“Non c’è la prova che senza vaccini saremmo stati peggio”). Quanto al segretario della Lega, forse bisognava pensarci meglio prima di fare con lui un patto in chiave anti Berlusconi, ritenendolo meno pericoloso per gli assetti della maggioranza del Cavaliere e di quanto accade dentro Forza Italia.
Vedremo nei prossimi giorni la manovra di bilancio e da lì capiremo se e quanto Salvini sia riuscito a scaricarci dentro tutte le cambiali elettorali che ha firmato, dalla flat tax alle pensioni, senza curarsi di quanto costino e di dove andare a prendere le risorse. Ma non c’è dubbio che per Meloni sia già venuto il momento di fare i conti con Salvini e il “salvinismo”, perchè più tardi ci sarà il chiarimento e più sarà oneroso per chi ha la paternità (maternità) del governo. Il gioco del leader della Lega con Meloni è evidente: far compiere al governo scelte il cui vantaggio in termini di consenso va a lui (o almeno così ritiene) e il cui prezzo da pagare in termini di responsabilità va sul conto di lei. Fatti loro, si potrebbe osservare, se non fosse che in gioco c’è la pelle del Paese.
Dar fuoco alle polveri della spesa pubblica, peraltro non in conto capitale per sostenere investimenti ma per distribuire risorse a debito, in un momento in cui l’Europa si accinge a riformulare le regole del “patto di stabilità” e a valutare il rispetto degli impegni con il Pnrr, è un suicidio bello e buono. Tanto più che, a torto o a ragione, il primo governo di destra della storia repubblicana certo non gode di simpatie a Bruxelles, a Francoforte e nelle principali cancellerie continentali. Una delle ragioni dell’attivismo del Quirinale, probabilmente la principale, è proprio la preoccupazione di garantire l’ancoraggio dell’Italia all’Europa, e nel contempo rassicurare il contesto internazionale circa la nostra fedeltà euro-atlantica. I pericoli vengono dal rapporto che tanto Salvini quanto Berlusconi coltivano, seppure in modo molto diverso, con Vladimir Putin. E dal retaggio sovranista di Meloni e del suo partito, oltre che dello stesso segretario della Lega.
Da quando ha messo piede a palazzo Chigi la leader di Fratelli d’Italia sembra intenzionata a voler consolidare il ruolo dell’Italia, come ha cercato di fare a Bali, pur circondata da una malcelata diffidenza. Ma essendo fin qui promossa in atlantismo e rimandata, se non bocciata, in europeismo, rischia di commettere l’errore di credere di poter compensare l’isolamento continentale con la tutela statunitense (che è stata brava ad assicurarsi da Biden quando fino a ieri sperava nella vittoria dei candidati trumpiani nelle elezioni di Midterm). Ed è proprio Mattarella, cui non sfugge come l’interesse italiano sia in egual misura atlantico ed europeo e che questi legami siano le due facce della stessa medaglia, l’unico che può aiutare Meloni a compiere i passi giusti e a tenere la barra dritta. Ma questo presuppone due cose: tenere a bada la tentazione della sua gente, cresciuta nell’isolazionismo antagonista e quindi povera di cultura istituzionale liberale, di rovesciare sull’inquilino del Quirinale l’accusa di voler delegittimare la destra e mettere sotto tutela il governo; non concedere alla sinistra lo spazio per farne una bandiera. Se invece si farà prendere dall’orgoglio identitario o anche solo dalla paura di deludere il suo mondo e la parte più oltranzista del suo elettorato, allora mangiare non dico il panettone ma anche lsolo la colomba potrebbe rivelarsi impossibile.