16 Aprile 2024, martedì
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È morto Ciriaco De Mita, l’uomo che chiuse il cerchio democristiano

È morto questa notte a Villa dei Pini, clinica di riabilitazione di Avellino, l’ex presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita. De Mita, che era stato eletto sindaco di Nusco di recente per la seconda volta, era stato ricoverato in seguito a un attacco ischemico il 10 aprile scorso al Moscati di Avellino; in precedenza era stato operato al femore, e per questo si trovata nella struttura di riabilitazione. Aveva 94 anni compiuti a febbraio scorso. A confermare il decesso all’AGI è stato il medico personale.

Che ne è stato della quarta generazione, della terza fase, del governo fino al Duemila perché sono gli altri che eccetera eccetera? Tutti o quasi ora sono nel limbo delle cose incompiute o di quelle sognate, che poi è la stessa cosa soprattutto in politica. La quarta generazione non è mai sbocciata, se non in forma al massimo caricaturale. La terza fase non è mai giunta. Il governo fino al Duemila è rimasto una chimera, anche se solo per un soffio. Ma il cerchio della Storia si è chiuso prima, implacabile, ed ora che si è chiuso anche quello della vita di Ciriaco De Mita si può dire chiaramente che davvero la Dc non tornerà mai più. La continuità è stata interrotta e seguiranno casomai solo nuove germinazioni, magari dal tronco vecchio. Ma il tronco vecchio, per l’appunto, è secco.

Ciriaco De Mita, infatti, fu colui che prese il Partito che fu il Paese e lo accompagnò, di fatto, nel suo ultimo momento di gloria. Dopo di lui la Democrazia Cristiana fu solo breve sopravvivenza, e quei momenti di successo che continuò pur ad avere furono come il rosso sulle guance delle ragazze di una volta, quando erano ammalate di tisi: salute apparente, in realtà premonizione.

Non era certo questo ciò che De Mita prevedeva, pur essendo egli una delle menti più sottili e profonde nell’analisi di un partito e di una generazione che dello spirito di finezza politica aveva fatto, ancor più che uno strumento micidiale, ragione stessa dell’essere in vita. Era capace di incantarti le ore, con quell’accento morbido all’eccesso, con le sue analisi. Analisi, del resto, in greco indica il processo dello studio all’interno di qualcosa allo scopo di individuarne gli elementi. E lui, uomo del meridione colto e studioso, di questo processo era divenuto il Maestro. Quanto al greco, vedremo poi.

Gli annali ufficiali italiani ab Republica condita, che poi sono “La cronologia della Storia d’Italia” della Deagostini, citano per la prima volta De Mita Ciriaco a pagina 631, anno domini 1964, per un atto di gagliofferia.  Si era appena dimesso dal Quirinale Antonio Segni, per i postumi di un colloquio molto burrascoso con Moro e Saragat. Per la successione la Dc candidava Giovanni Leone. I partiti laici dell’arco costituzionale candidavano Saragat. Fanfani, come sempre, candidava se stesso. Che ti combina, De Mita? Finisce sospeso dal partito: lo hanno beccato a votare come piffero gli andava a lui. Siccome nessuno gli andava a genio (poco Leone, figuriamoci Fanfani) insieme a quell’altro ribaldo strutturale che era Carlo Donat Cattin aveva depositato nell’urna una scheda candida come i due asserivano essere le loro coscienze, ma non come il Partito consigliava caldamente. Ma il Partito – i partiti – a quell’epoca era cosa seria, e mica si lasciava prendere in giro troppo facilmente. Fuori un giro. Ai cavalli di razza ogni tanto fa bene mangiar la poltiglia di crusca: imparano la disciplina.

Per capire questo lato – progressivamente nascosto con il passar degli anni – del carattere di De Mita occorre un salto all’indietro nel tempo, fino ai  suoi primi soggiorni romani. Non se ne è mai sentito parlar molto, di quel periodo, eppure tanta della sua Bildung viene da lì. 

De Mita era infatti figlio di un piccolo sarto di un piccolo paesino, chiamato Nusco, nel cuore più profondo dell’Irpinia. Forte di un carattere poco incline a mollare (lo si è appena visto) e di doti cerebrali indiscutibili, era arrivato alla laurea alla Cattolica di Milano, dove aveva conosciuto un gruppo di coetanei dal destino per lui fatale, che gli presentarono la politica. Abbandonò per questa il suo primo amore, che era l’Accademia, e con gli amici che lo avevano iniziato ai nuovi orizzonti scese giù a Roma.

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