29 Marzo 2024, venerdì
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PARE ESSERE TORNATI AL 2011-2012

A cura di Giuseppe Catapano

Non c’è bisogno di scomodare i “corsi e ricorsi” di Giambattista Vico per percepire le analogie del momento che stiamo vivendo con il 2011 per certi versi e il 2012 per altri. Sto parlando di atmosfere, di sensazioni, prima ancora che di fatti specifici, che però mi inducono a temere che l’esito del governo Draghi e delle larghe intese che lo sostengono non sia dissimile dal lascito di quei due anni. Allora una crisi economica non adeguatamente fronteggiata, unita al disfacimento di un sistema politico, quello (impropriamente) chiamato Seconda Repubblica, dal cui fallimento non si intravedeva alcuna via d’uscita né sbocco, portò il differenziale di rendimento tra i titoli del debito pubblico italiano e quelli tedeschi – il famoso spread – tra i 500 e i 600 punti. Di fronte allo spettro di un tragico default, Silvio Berlusconi fu costretto a dimettersi – per le circostanze fattuali, e non per mano di un’operazione di palazzo, come piace dire agli stolti e ai dietrologi di professione – e al suo posto l’allora presidente Napolitano scelse Mario Monti, che si mise alla testa di un governo “tecnico” sostenuto da una larga maggioranza. Dopo aver fatto la riforma delle pensioni, meritoriamente pur con i limiti che essa ebbe, nel 2012, con il trascorrere dei mesi e l’avvicinarsi della scadenza elettorale della primavera 2013 il governo Monti finì ben presto vittima delle spinte centrifughe dei partiti, perse progressivamente spinta e abdicò alla sua principale funzione politica, che era quella di creare le condizioni per la nascita della Terza Repubblica, in modo profondamente diverso da quello demagogico e istituzionalmente scorretto con cui si era chiusa tra il 1992 e il 1994 l’esperienza della Prima Repubblica. E che il governo Monti mancò di porre le giuste premesse al suo dopo lo dimostrarono la controversa, e profondamente contradditoria, stagione di Matteo Renzi e il suo epilogo, la vittoria dei populismi alle elezioni del 2018 e la nascita del “bipopulismo”, di cui stiamo pagando tuttora le conseguenze a caro prezzo.

Oggi, lo spread ha superato i 200 punti, con un aumento del tasso decennale dei Btp di oltre un punto percentuale. Sembrerebbe un livello non comparabile con quelli di 11 anni fa, e in effetti è meno della metà. E l’aggravio per il bilancio pubblico, in termini di spesa per interessi calcolato su tutte le scadenze di emissioni di debito, è stimabile nell’ordine di tre miliardi nei primi 12 mesi, una cifra ampiamente compensata sia dall’allungamento delle scadenze dei titoli di Stato su cui ha ben lavorato il Tesoro sia dall’effetto, in questo caso positivo, della fiammata inflazionistica in atto. Tuttavia, vanno considerati due elementi. Il primo: l’economia della Germania è in affanno sul piano congiunturale e in crisi sul piano strutturale, tant’è che si parla della necessità, a partire dal sistema energetico, di un vero e proprio cambio radicale del modello di sviluppo, e questo ha (ri)portato i Bund a pagare gli interessi, mentre nel decennio scorso e fino a qualche tempo fa i tassi tedeschi erano sotto lo zero, e dunque i 200 punti base di spread valgono di più di altrettanti punti di differenziale del 2011. Il secondo: al momento dell’insediamento di Mario Draghi a palazzo Chigi, lo spread era a 90 punti, ergo nel frattempo è più che raddoppiato, ed è rimasto intorno ai 100 punti fino a fine ottobre, per poi inesorabilmente salire, ovviamente a maggior ragione dallo scoppio della guerra in Ucraina in avanti. Quindi si va in qualche modo ripetendo quanto accadde nel 2012, quando via via andò svanendo la fiducia nei confronti del governo Monti ma soprattutto nella sua capacità di determinare in modo positivo ciò che sarebbe accaduto dopo.

Ma hanno ragione i mercati di dubitare del governo Draghi, dei partiti odierni e delle prospettive che ci attendono una volta consumate le elezioni politiche? Diciamo che tutti i torti non ce l’hanno. Dividiamo la politica estera da quella interna. Sul primo fronte, è indubbio che l’attuale esecutivo sia un sicuro baluardo della collocazione atlantica ed europeista dell’Italia. E non è poca cosa, se considera sia il prevalere delle suggestioni sovraniste, euroscettiche, filo-russe (e pure filo-cinesi) e trumpiane emerse dalle urne del 2018 e pericolosamente trasferite dentro i due governi Conte che (ahinoi) hanno punteggiato questa legislatura, sia il fatto che di questa certezza possiamo godere in una drammatica contingenza come quella scatenata da Putin. 

Visti anche gli intollerabili distinguo di Conte e Salvini sulla vicenda russo-ucraina e sulle decisioni da prendere sulla fornitura di armi a Kiev – penosa, oltre che ridicola, è la distinzione tra armi offensive e armi difensive – e più in generale sull’aumento della spesa militare italiana nell’ambito degli accordi Ue e Nato, pensate solo a cosa sarebbe accaduto se la guerra Putin l’avesse scatenata tre anni prima, il 24 febbraio del 2019, con a Roma il governo gialloverde. Sarebbe stata una tragedia. Ammesso (e non concesso) che siano fondate le preoccupazioni per un presunto eccesso di simpatia di Draghi verso Biden – molte delle critiche che sentiamo alla vigilia del suo viaggio a Washington trasudano il solito anti-americanismo latino – nulla è questo problema, riconducibile ad una dialettica, peraltro sana, all’interno del mondo occidentale, se paragonato a quello che sarebbe capitato con Conte e Salvini a dover maneggiare il dossier guerra e la nostra collocazione in sede europea e atlantica. Avete presente l’ungherese Orban, che proprio in queste ore oltre a rifiutarsi di aderire alle sanzioni europee contro Mosca le ha definite niente meno che “una bomba atomica che vogliono sganciare sull’economia ungherese”? Ecco, qualcosa di simile. Dunque, meno male che Draghi c’è.

Diverso, però, è lo scenario interno, e in particolare quello della politica economica. A parte il ritardo, evidente anche se negato, sul fronte degli investimenti previsti dal Pnrr – che peraltro avrebbe bisogno di essere aggiornato se non riscritto, sia perchè la sua stesura iniziale era piuttosto scolastica e macchinosa, sia perchè con la crisi energetica, congiunturale ma soprattutto strutturale, che sia è aperta, andrebbero ridefinite le priorità – a metter ansia è il continuo ricorso a interventi di sostegno. Non è questo governo ad aver inventato la “bonus economy” – la prima pietra la mise Renzi con gli 80 euro – ma certo vi contribuisce alla grande. Grida vendetta il fatto che non solo non sia stato toccato il reddito di cittadinanza, nonostante il conclamato (e più che previsto) fallimento, ma che ora sia stato deciso che i 200 euro assegnati ai redditi inferiori ai 35mila euro annui siano dati anche i percettori dell’incentivo a non lavorare. Il decreto “aiuti”, la cui consistenza è passata da 6 a 14 miliardi nello spazio di un mattino, dopo un incontro con i sindacati (che fanno il loro mestiere, per carità), è un florilegio di piccoli e grandi compromessi con le più diverse istanze, sia interne alla maggioranza di governo che, appunto, delle parti sociali. Di certo non è un provvedimento di politica economica definibile strategico, e tantomeno non è quella “nuova politica dei redditi” evocata dal ministro Giorgetti, salvo che con quella definizione dall’antico sapore lamalfiano non s’intenda una pura e semplice distribuzione di risorse a carico della spesa pubblica.

L’impressione è che il governo, una volta chiusa la vicenda Quirinale, sia entrato in una fase di forte oscillazione tra aut aut del presidente del Consiglio verso i ministri e i partiti – della serie “se mi volete mi prendete così altrimenti lascio volentieri l’incarico”, che Draghi considera molto più oneroso che gratificante – e un continuo scendere a patti in nome della stabilità. Due estremi che impediscono al governo di performare come invece aveva fatto nella sua prima fase, quando aveva ottenuto ottimi successi nella lotta alla pandemia attraverso il piano nazionale di vaccinazione. E questo, oltre a richiamare la fase uno e la fase due del governo Monti, è “letto” dai mercati, che ci puniscono con lo spread a 200, e anche dagli interlocutori europei, che seppure a mezza bocca cominciano ad esprimere dubbi sul fatto che Roma continui a percorrere la via virtuosa che aveva imboccato.

Ma la vera questione riguarda il “dopo Draghi”. Che esso inizi a ottobre con il voto anticipato, come più d’uno comincia a pensare vedendo l’accelerazione data alla manovra di bilancio, che potrebbe essere fatta in estate rispetto alla solita scadenza di dicembre – cosa che a questo punto potrebbe avere più punti di vantaggio che di svantaggio per il Paese – o che resti fissato nella prossima primavera, sta di fatto che non si vede il punto di caduta rispetto all’impasse del sistema politico. Da un lato, ci sarebbe da sperare che gli italiani con il loro voto facessero pulizia, ma sappiamo che, almeno fin qui, nessuno ha lavorato per proporsi credibilmente come alternativa, in senso liberale e riformista, alla canea populista e sovranista. Dall’altro lato, sarebbe auspicabile che all’interno del sistema le forze meno infettate dal virus nazional-populista – intese come partiti interi, componenti di essi e singoli esponenti – prendessero coscienza che è venuto il momento di prendersi la responsabilità di rompere i giochi e i vecchi schemi, e giocare in campo aperto costruendo nuove aggregazioni e alleanze. Ma fin qui Di Maio, che sta facendo bene il ministro e dice cose quasi sempre assennate, non sembra sfidare apertamente Conte, nonostante che ormai li divida un oceano di diversità. Così come la componente più governativa e meno movimentista (e avventurista) della Lega non è passata dal mugugno alla sfida aperta nei confronti di Salvini.

Così come le due anime di Forza Italia (ce ne sono molte di più, di anime e animelle, in ciò che resta del fu partito berlusconiano, ma semplifichiamo) continuano a coesistere per pure ragioni di sopravvivenza, invece di sfidarsi e se del caso dividersi, come sarebbe ora che facessero. Anche il Pd vive nell’ipocrisia di un falso unanimismo, ma la differenza che su un tema dirimente come la guerra hanno mostrato Letta e Delrio (tanto per dirne uno), piuttosto che le diverse sensibilità circa l’alleanza con i 5stelle, sempre più soffocante, e la conseguente costruzione del “campo largo”, sempre più piccolo, sono questioni che non emergono alla luce del sole, con ciò impedendo che si faccia chiarezza. L’unica che non teme differenze interne è la Meloni, ma farebbe meglio a chiarire a se stessa e al Paese come in un momento come questo la sua linea atlantista (che in fondo era già del partito di Almirante) si concili con quella, sua e della componente di cui FdI fa parte a Bruxelles, a-europeista per non dire euroscettica.

Insomma, ci sarebbe da far politica – che non vuol dire entrare nell’agone politico – per smuovere la “foresta pietrificata”. Ma Draghi, che potrebbe svolgere un ruolo prezioso in questo senso ma è preda dei suoi vecchi e nuovi pregiudizi, non lo fa. Forse proprio per non assomigliare oltremodo a Monti, che ci provò, maldestramente. Non ci rimane che sperare nel proporzionale. 

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