18 Aprile 2024, giovedì
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L’EUROPA È CHIAMATA A UNIRSI

A cura di Giuseppe Catapano 

Di fronte alla spaventosa violenza scatenata nel cuore dell’Europa dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin, prima di tutto vengono la condanna – senza se e senza ma – dell’aggressore, e la necessità di fermare la sua azione criminale. Anche a costo di consegnare alla Cina di Xi Jinping il pallino della mediazione (e non sarebbe cosa di poco conto). Poi, a tempo debito, ci sarà spazio per le analisi critiche, per evidenziare gli errori commessi dagli Stati Uniti e dall’Europa. Che certamente non sono mancati – basterebbe rileggere l’editoriale che Henry Kissinger scrisse per il Washington Post otto anni fa, esattamente il 5 marzo 2014, nel quale auspicava la neutralità dell’Ucraina per disinnescare il pericolo più grande per il mondo libero, far finire la Russia tra le braccia della Cina – ma che non possono essere oggetto del presente. Per il semplice motivo che in un momento come questo, al cospetto di una possibile terza guerra mondiale, con una mano già protesa al bottone che mette in moto l’uso delle armi atomiche e con la più grande centrale nucleare d’Europa e tra le dieci maggiori del mondo (quella di Zaporizhzhia, nel Sud dell’Ucraina) già colpita dalla potenza di fuoco russa, sfiorando una nuova e ben peggiore Chernobyl, non sono tollerabili i distinguo tipo “né con la Russia, né con la Nato” di coloro che l’amico Barbano ha efficacemente definito i “sacerdoti del relativismo”. Perché, come hanno ben argomentato Cristian Rocca su Linkiesta e Paolo Mieli sul Corriere della Sera, non è affatto fuorviante dire che stiamo assistendo allo scontro tra democrazie occidentali e autocrazie. E che di fronte a un bivio del genere non ci possono essere esitazioni, neppure osservando l’impari confronto dei processi decisionali, da un lato la lentezza (quando non la farraginosità) tipica delle democrazie mature e dall’altro la risoluta velocità delle moderne autocrazie. Questo non significa negare i limiti dell’Occidente, sottovalutare le incompiutezze delle liberaldemocrazie, disconoscere le contraddizioni della globalizzazione, ignorare il progressivo deterioramento strategico della Nato. Significa semplicemente avere il senso della storia e mettere le cose sull’asse del tempo. Ed evitare di praticare la retorica pacifista, secondo la quale il tema non è essere con i piedi ben saldi dalla parte della democrazia, della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, ma stare in una sorta di limbo consegnato ad una non ben definita pace universale, dove la distinzione tra Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky si perde, visto che entrambi sono armati.

 Le scelte tempestive compiute dai singoli paesi europei e dalla Ue, una volta tanto non a ruota degli Stati Uniti, sia con le sanzioni economico-finanziarie sia con gli aiuti militari all’Ucraina, sono sembrate all’altezza della minaccia e fanno ben sperare. L’attivismo di Macron, il discorso di Draghi al parlamento italiano, la storica decisione tedesca di aumentare le sue spese militari e dire no al gasdotto Nord Stream 2 con la Russia, gli interventi sui beni miliardari degli oligarchi (che in una misura non banale sono anche di Putin) e la sfida sul gas correndo anche il rischio di una chiusura dei rubinetti, che se anche fosse parziale metterebbe comunque in ginocchio molti paesi continentali a cominciare da Italia e Germania, non sono parole puramente evocative e gesti meramente simbolici, ma sono il segno che il “fronte continentale” all’interno di quello occidentale, sembra avere assunto la piena consapevolezza del suo ruolo e delle responsabilità che ne derivano.

Ma tutto questo è solo una giusta premessa. Il grosso resta ancora da fare. E richiede scelte coraggiose, addirittura epocali. La prima è procedere speditamente e risolutamente verso la costruzione di un sistema europeo di difesa, integrando le forze armate dei singoli paesi, nel solco di una politica estera unitaria. Perché aveva ragione il senatore Andrea Cangini, una delle poche voci autorevoli di Forza Italia, quando in Aula ha detto che “se l’Europa, la Nato, l’attuale presidenza americana e più in generale l’Occidente avessero avuto una reale credibilità militare, Putin non avrebbe osato dichiarare guerra ad uno Stato sovrano notoriamente filo occidentale: lo ha fatto perché ci vede imbelli, incapaci di una politica estera e di una vera deterrenza militare”. Certo, non è cosa che si può fare dall’oggi al domani, ma un segnale inequivocabile in questa direzione varrebbe di più di qualsiasi sanzione economica.

La seconda scelta riguarda la politica energetica, che è l’altra faccia della medaglia della politica ambientale e fattore fondamentale della politica economica. Qui bisogna essere chiari: il combinato disposto tra l’essersi resi fortemente dipendenti (schiavi) dalla Russia negli approvvigionamenti di gas e petrolio – ogni giorno l’Europa paga a Mosca qualcosa come 700-800 milioni di euro a fronte degli idrocarburi russi, cioè ossigeno puro per quella economia – e la superficialità con cui si sono scelti tempi e modi (non il fatto in sé, che è sacrosanto) della transizione ecologica, ci espone da un lato al ricatto di Putin e dall’altro a subire una crisi energetica che ci riporta al 1973, quando a causa dell’improvvisa e inaspettata interruzione del flusso di petrolio seguito alla guerra del Kippur, fummo costretti ad andare a piedi e a subire umilianti razionamenti.

Ora, ai cittadini europei – specie a quelli che manifestano per la pace ma che sarebbero pronti a cambiare il motivo del loro scendere in piazza se domani il governo ordinasse di spegnere la luce, chiudere l’auto in garage e razionare l’uso del gas – va spiegato senza infingimenti che se si vuole fermare la mano assassina di Putin occorre fare, subito, una serie di cose finora considerate impopolari. Per esempio: a) ripensare la quantità e il profilo dei consumi energetici domestici, facendo sacrifici; b) dare il via libera, rimuovendo tutte le rigidità burocratiche, alle perforazioni (le cosiddette trivelle) nel Mediterraneo per tirar fuori i miliardi di metri cubi di gas che per ragioni ideologiche abbiamo lasciato lì; c) costruire tutte le infrastrutture, a cominciare dai rigassificatori (che consentono di diversificare la provenienza degli approvvigionamenti, acquistando gas liquefatto), che per ignavia, codardia e subcultura ideologica i governi degli ultimi trent’anni non hanno realizzato; d) puntare seriamente sulle rinnovabili, togliendo tutti vincoli che, specie in sede locale, impediscono (specie all’eolico offshore) di realizzare velocemente gli impianti; e) guardare al nucleare di nuova generazione senza pregiudizi; f) riscrivere i termini della transizione ambientale, con massicce dosi di pragmatismo e comunque alla luce della crisi energetica in corso. Il tutto nell’ambito della immediata costruzione di una Unione energetica europea, che consenta una gestione unitaria sia delle produzioni (i singoli paesi hanno portafogli energetici disequilibrati, ma nell’insieme la Ue ha un giusto mix delle fonti) sia delle reti di distribuzione e dei sistemi di stoccaggio.

E a proposito di preparare l’opinione pubblica ai necessari e inevitabili sacrifici, sgombrando il campo dai populismi, è bene che si ascolti il monito di Emma Bonino quando afferma “ci saranno dei costi da pagare, non è solo l’energia, ma anche il grano”. Già, pane e pasta per gli umani, il mangime per il bestiame. Ecco un altro fronte di crisi che va affrontato con decisione. Perché la guerra scatenata da Putin rischia di affamare il mondo. I prezzi di grano e mais sono infatti schizzati alle stelle, con rincari che oltre ad essere benzina sul già fiammante fuoco dell’inflazione, possono avere un pesante impatto sulla sicurezza alimentare di molti paesi, causando instabilità politica nelle aree più povere e provocando un pericoloso effetto domino a livello internazionale, non fosse altro per i flussi migratori conseguenti. Russia e Ucraina valgono da sole quasi un terzo del commercio mondiale di questo settore e, con 42 milioni di ettari di terreni agricoli che coprono il 70% del paese, proprio l’Ucraina viene da sempre definita il “granaio d’Europa”. Ma, a ben vedere, rifornisce copiosamente anche Medio Oriente e paesi africani. Nel 2021 a Kiev faceva capo il 12% dell’export globale di grano, il 16% di mais, il 18% di orzo, il 19% di colza. Insomma, il paese che Putin vuole annettersi nel suo disegno imperialista di ricostruzione della vecchia Unione Sovietica, non è cruciale solo come terra di passaggio del gas e come “zona di confine tra sfere di influenza”, ma anche come “fornitore di cibo” al mondo. Per questo i produttori di pane e pasta hanno lanciato l’allarme scorte, mentre gli allevamenti di animali che utilizzano il mais sono in crisi. E per questo nel mondo arabo si descrivono già da settimane scenari catastrofici per le “guerre del pane” (ricordiamoci che nel 2011 la Primavera Araba fu scatenata proprio da un forte balzo dei prezzi dei generi alimentari). Ecco, dunque, che anche la politica agricola europea va ripensata.

Insomma, di fronte ai pericoli che abbiamo davanti, al cui confronto la pandemia che per due anni ci ha maledettamente condizionato finirà per apparirci niente di più che un fastidioso grattacapo, chiedere il cessate il fuoco e auspicare la pace è condizione necessaria ma niente affatto sufficiente. Per l’Europa è venuto il momento di accantonare ogni riserva e pigrizia, integrandosi al costo di cedere significative porzioni di sovranità ad un vero governo continentale. C’è l’occasione giusta a portata di mano: la riscrittura del “patto di stabilità”. La si usi. Altrimenti Putin prenderà il sopravvento, oppure Xi Jinping lo ridurrà a più miti consigli. E né l’una né l’altra delle ipotesi ci lasceranno la libertà e la prosperità di cui abbiamo goduto fin qui.

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