19 Aprile 2024, venerdì
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Covid-19 e lavoro: Risponde l’avvocato Gregorio Ferrari

A cura di Ionela Polinciuc

L’inosservanza delle norme per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro potrebbe determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità civile e penale. Facciamo il punto alla luce del DPCM 26 aprile 2020 e della circolare n. 13/2020 dell’Inail. Oggi con l’Avvocato Gregorio Ferrari cerchiamo di rispondere ad alcune domande dei nostri lettori.

Avv. il dipendente che non informa il datore di lavoro della possibilità di un contagio da Covid, cosa rischia?

‘’Innanzitutto è bene precisare che l’art.20 del D.lgs.81/2008 (Testo Unico in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro) rubricato obblighi del lavoratore, al comma 1 prevede che “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”, stabilendo nei commi successivi le modalità attraverso le quali occorre assolvere a tele obbligo. E’ pacifico che ormai i lavoratori debbano assumere un ruolo attivo nelle politiche della prevenzione, nel senso che il lavoratore è responsabile in qualche modo, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri compagni di lavoro. Ed infatti, l’art.20 del citato D.lgs. 81/2008 al comma 2 lett.a) prosegue affermando che il lavoratore deve contribuire, insieme al datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, nell’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ebbene, a seguito della pandemia che ci ha colpiti, con la direttiva Ue 2020/739, recepita con l’articolo 4 del D.L. 125/2020, il Covid-19 è stato incluso tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell’ambiente di lavoro. Ciò vuol dire, evidentemente, che il lavoratore che abbia avuto contatti con un soggetto positivo al covid-19 dovrebbe informare il proprio datore, al fine di tutelare gli altri soggetti presenti sul luogo di lavoro e consentire l’avvio dell’iter per l’adozione di tutte le misure di cautela opportune. Ovviamente, la violazione dell’obbligo informativo può essere senz’altro paragonata alla violazione delle norme in materia di salute e sicurezza sul luogo di lavoro, determinando nei confronti del prestatore che ha violato le disposizioni, l’applicazione delle sanzioni amministrative e/o penali previste dall’art.59 del D.lgs. 81/2008. Allo stesso tempo, il comportamento del prestatore di lavoro che non ha rispettato la normativa di sicurezza e il proprio obbligo di collaborazione con l’imprenditore, viola altresì i doveri di buona fede e correttezza che caratterizzano ogni rapporto lavorativo e, di conseguenza potrà essere sottoposto a misure disciplinari proporzionate alla gravità della violazione (rimprovero verbale, ammonizione scritta, multa, sospensione dal lavoro o dalla retribuzione, trasferimento, licenziamento).

Alcuni datori di lavoro sono giunti addirittura a comminare il licenziamento a seguito dell’omessa comunicazione. E’ chiaro però che tale sanzione debba costituire extrema ratio ed essere disposta in ipotesi estremamente gravi. È quanto accaduto ad un lavoratore di Palermo che aveva omesso di comunicare che la moglie era stata a contatto con una collega positiva al covid-19. A quel punto, la società aveva intimato il licenziamento per giusta causa, ravvisando un comportamento irresponsabile del dipendente e il rischio di diffusione dell’epidemia nell’ambiente di lavoro, in quanto il datore non era stato messo in condizione di adottare le misure precauzionali necessarie per impedire la propagazione del contagio, in particolare verso i colleghi che avevano svolto i turni di servizio insieme al dipendente in questione. Tuttavia, nella fattispecie, l’omesso avviso al datore di lavoro è stato ritenuto un “inadempimento di scarsa importanza”, poiché la situazione specifica non aveva costituito un serio e concreto pericolo per la sicurezza sui luoghi di lavoro e, di conseguenza, la sanzione del licenziamento è stata ritenuta eccessiva dalla Corte d’Appello di Palermo, la quale però ha anche ribadito la necessità di una collaborazione da parte dei lavoratori per scongiurare situazioni sanitarie di rischio.

Il dipendente deve avvisare il datore di lavoro di qualsiasi situazione di pericolo cui venga a conoscenza?

Tale quesito è strettamente connesso al precedente e, difatti, ancora una volta la risposta giunge dal D.lgs.81/2008, il quale, come detto prima, pone in capo al lavoratore un generale dovere di collaborazione con il datore di lavoro, i dirigenti e i preposti nell’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. La medesima norma precisa poi al comma 2 gli specifici obblighi cui è tenuto il lavoratore. Per quanto qui interessa, assume notevole rilevanza il disposto di cui alla lett. e) “I lavoratori devono in particolare: segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi…, nonché qualsiasi eventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza,…. per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza”.

È chiaro allora che, sempre al fine di tutelare la salute e la sicurezza propria e quella degli altri colleghi, il lavoratore dovrà senz’altro avvertire l’imprenditore o comunque chi di competenza, di qualsiasi situazione che possa mettere a rischio l’incolumità dei soggetti presenti sul luogo di lavoro in modo da adottare tutte le cautele per scongiurare ogni condizione di pericolo. Inoltre, la disposizione fa un passo in avanti allorché dispone che il lavoratore non solo deve informare il datore della situazione di rischio, ma deve altresì adoperarsi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla lettera f) (“non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo”). In altre parole, il prestatore di lavoro deve agire in prima persona per evitare “qualsiasi eventuale condizione di pericolo”. Ovviamente rispetto al citato obbligo di adoperarsi direttamente, sia pure nell’ambito delle proprie competenze e possibilità, in caso di urgenza e in presenza di pericolo grave ed incombente, deve necessariamente prevalere un criterio prudenziale onde evitare ulteriori e maggiori rischi (come è accaduto nella tragedia di Thyssenkrupp a Torino, del 6 dicembre 2007, in cui persero la vita sette operai).

Sul punto rileva anche l’art. 44 del D.lgs. 81/2008 ai sensi del quale “1. Il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza

dannosa. 2. Il lavoratore che, in caso di pericolo grave e immediato e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, prende misure per evitare le conseguenze di tale pericolo, non può subire pregiudizio per tale azione, a meno che non abbia commesso una grave negligenza”.

L’inosservanza delle norme per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro potrebbe determinare in capo al datore di lavoro una responsabilità civile e penale?

‘’Il datore di lavoro senza dubbio risponde della mancata osservanza delle norme a tutela dell’integrità fisica dei prestatori di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia che discende in primo luogo dall’art.2087 c.c., ai sensi del quale “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

La normativa nazionale di riferimento è poi costituita ancora una volta dal D.lgs. 81/2008 il quale coordina, all’interno di un unico testo, tutte le norme in materia di salute e di sicurezza dei lavoratori nel luogo di lavoro, stabilendo una serie di interventi da osservare per tutelare i lavoratori sotto ogni aspetto, compresa la necessità di evitare o quanto meno ridurre il rischio di diffusione di malattie sul posto di lavoro.

Può certamente affermarsi che l’onere del datore di lavoro in merito alla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, è divenuto oggi ancora più oneroso a seguito della pandemia in atto. Difatti al Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si affianca la molteplicità di interventi anche di rango secondario, che ricomprendono la copiosa e recente regolamentazione emergenziale (decreti, circolari, linee guida, protocolli, ecc.), emanati proprio per fronteggiare l’emergenza Covid-19 sui luoghi di lavoro, in seguito alle quali anche il coronavirus è entrato a far parte di quelle malattie infettive di cui occorre evitare la diffusione nell’ambiente di lavoro. Ebbene, ogni datore di lavoro, a seguito di ciò, è tenuto a rispettare i protocolli di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro e vigilare affinché anche i dipendenti rispettino tali disposizioni.

Qualsiasi violazione da parte dell’imprenditore delle norme per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro (a titolo esemplificativo: misurazione della temperatura, igienizzazione e sanificazione dei locali, controllo green pass, predisposizione e utilizzo dei dispositivi necessari e idonei ecc.) potrebbe essere, già in astratto sufficiente a determinare in capo al datore di lavoro medesimo una responsabilità civile e penale nel caso in cui un dipendente contragga la malattia, anche rimanendo asintomatico, sul luogo lavorativo. Orbene, il contagio è ormai pacificamente equiparato all’infortunio sul lavoro e, il datore di lavoro che non osserva le norme antinfortunistiche in generale, è punibile ai sensi dell’art.40 co.2 c.p., ovvero per reato

omissivo improprio, o reato commissivo mediante omissione. Tale condotta acquisisce rilevanza causale in riferimento a quei soggetti che rivestono una posizione di garanzia, ovvero nei confronti di coloro che hanno l’obbligo di evitare il verificarsi di un determinato fatto giuridico. Nel caso di specie l’evento che il datore di lavoro ha l’obbligo giuridico di impedire ai sensi dell’art.2087 c.c. è costituito dal contagio.

Nello specifico, il datore di lavoro che abbia violato le disposizioni previste dalla legge o dalla normazione secondaria, viola importanti norme di cautela e per ciò stesso, risponderà del reato di lesioni personali colpose di cui all’art.590 c.p. in caso di avvenuto contagio di un lavoratore sul posto di lavoro, oppure di omicidio colposo ai sensi dell’art.589 c.p. qualora al contagio sia seguita la morte del prestatore, cui si aggiunge la circostanza aggravante della violazione delle norme antinfortunistiche (art. 590, comma 3, c.p.). Per quanto concerne quest’ultima aggravante, nei delitti colposi derivanti da infortunio sul lavoro, non occorre che siano violate norme specifiche dettate per prevenire infortuni sul lavoro, essendo sufficiente che l’evento dannoso si sia verificato a causa della violazione dell’art. 2087 c.c. che, lo ricordiamo, impone all’imprenditore di adottare tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori.

Per quanto riguarda, poi, l’onere della prova, la circolare n. 13/2020 dell’Inail ha chiarito che in linea generale nell’attuale situazione pandemica, l’ambito della tutela riguarda innanzitutto gli operatori sanitari esposti ad un elevato rischio di contagio. Per tali operatori vige, la presunzione semplice di origine professionale, considerata, appunto, la considerevole probabilità che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo coronavirus. A una condizione di elevato rischio di contagio possono essere ricondotte anche altre attività lavorative che comportano il costante contatto con il pubblico quali ad esempio: lavoratori che operano in front-office, addetti alle vendite, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali, operatori del trasporto infermi, etc. Anche per tali figure vige il principio della presunzione semplice valido per gli operatori sanitari.

Per tutti gli altri lavoratori, invece, la copertura assicurativa è riconosciuta a condizione che la malattia sia stata contratta durante l’attività lavorativa, fermo restando che l’onere della prova è a carico dell’assicurato, prova che nel concreto si presenta molto difficile da raggiungere. Infatti, è particolarmente complesso per il lavoratore fornire la prova della colpevolezza del datore di lavoro al di là di ogni ragionevole dubbio ed escludere l’esistenza di altre cause di contagio esterne alla responsabilità imprenditoriale. Tuttavia, tale difficoltà non deve essere motivo di inosservanza delle misure imposte dalla normativa, in quanto prima che un obbligo giuridico si tratta di un dovere morale di tutti i lavoratori e datori di lavoro di rispettare e far rispettare le disposizioni del nostro ordinamento, specie nel caso in cui si tratti della salvaguarda del bene primario della salute.

L’eventuale contagio da coronavirus all’interno del luogo di lavoro, non esenta poi l’imprenditore neppure dal risarcimento del danno in sede civilistica, ai sensi dell’art.2043 c.c., in virtù del quale “qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno”. Anche in questo caso, l’onere della prova è a carico del danneggiato, il quale deve dimostrare il nesso di causalità fra l’evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta illecita attiva o omissiva del datore di lavoro’’.

Avv. Concludo con una domanda che abbiamo ricevuto da un nostro lettore: In caso di caldo eccessivo i lavoratori, in particolare quelli nei cantieri edili e stradali, nell’agricoltura e nel florovivaismo possono essere collocati in cassa integrazione per tutelare la loro salute e prevenire situazioni di rischio?

‘’Ogni anno, quando arriva l’estate si pone il problema dell’aumento delle temperature in relazione alla esigenza di fornire adeguata tutela a tutti i lavoratori che operano in ambienti particolarmente esposti al rischio termico.

l’Inail e il Ministero della salute suggeriscono i comportamenti da tenere sul posto di lavoro quando

le temperature siano particolarmente calde. Nello specifico, i datori di lavoro hanno l’onere di consultare il bollettino di previsione e allarme relativo alla città di riferimento e, nei giorni ad elevato

rischio, devono sospendere l’attività lavorativa nelle ore più calde (dalle 14.00 alle 17:00) e programmare le attività più pesanti nelle ore più fresche della giornata; garantire la disponibilità di acqua nei luoghi di lavoro; inserire un programma di acclimatamento graduale e prevedere un programma di turnazione per limitare l’esposizione dei lavoratori.

Inoltre, forse anche il recente triste fatto di cronaca che ha visto la morte di un lavoratore agricolo a causa del caldo eccessivo, ha spinto l’Ispettorato del Lavoro a segnalare l’importanza di organizzare speciali iniziative di sensibilizzazione e comunicazione da condividersi nell’ambito dei Comitati di coordinamento regionali e provinciali come previsto dal D.lgs.81/2008.

Difatti, con la nota del 2/07/2021 n. 4639 l’Ispettorato Nazionale del Lavoro è intervenuto in materia specificando la necessità di intensificare le azioni di prevenzione del rischio da stress termico, soprattutto riguardo ai cantieri edili e stradali, all’agricoltura e al florovivaismo. Tale intervento di maggiore sensibilizzazione prende spunto dalla circolare 18 maggio 2021 “Sistema operativo nazionale di previsione e prevenzione degli effetti del caldo sulla salute – Attività 2021 in relazione all’epidemia COVID-19”, con la quale il Ministero della Salute, ha indicato le misure da adottare per gestire e prevenire quelli che sono gli effetti, sui prestatori di lavoro che svolgono particolari attività, derivanti dal rischio termico.

La suddetta nota, in buona sostanza, ha disposto che, in caso di temperature eccezionalmente elevate (superiori ai 35°) che rendono difficile lo svolgimento di lavorazioni in particolare in luoghi esposti al sole, le aziende hanno la possibilità di ridurre o sospendere l’attività e chiedere la Cassa integrazione guadagni ordinaria. A questo proposito, si segnala anche il messaggio INPS n. 1856 del 3 maggio 2017 in tema di cassa integrazione in cui l’istituto ha afferma che: “le temperature eccezionalmente elevate (superiori a 35°), che impediscono lo svolgimento di fasi di lavoro in luoghi non protetti dal sole o che comportino l’utilizzo di materiali o lo svolgimento di lavorazioni che non sopportano il forte calore, possono costituire evento che può dare titolo alla CIGO”.

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