26 Aprile 2024, venerdì
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Silicon Valley sull’orlo di una bolla?

Social network che permettono di inviare ai contatti solo il messaggio «Yo», saluto confidenziale statunitense equivalente all’italiano «come va»? Servizi di consegna cibo a domicilio valutati 400 milioni di dollari. Start-up che consegnano a domicilio rotolini da 25 centesimi, al costo di 27 dollari in cambio di 20 in monetine. Guardando questa lista, non è difficile concludere che la Silicon Valley ha superato ogni limite. Sembra che tutta la Bay Area abbia smesso di risolvere qualsiasi cosa se non i propri problemi: quelli, cioè, che affliggono le circa 20 società che stanno creando queste start-up.

È un’interpretazione piuttosto cinica su quello che sta accadendo alla tecnologia. E che dire di Google, Facebook o Uber, che hanno tutti trasformato, o probabilmente lo faranno, intere industrie? Con grande sorpresa, però, i partner di una società di venture capital della Silicon Valley hanno presentato proprio lo stesso caso: quel tipo di società aveva smarrito la strada e, nel mondo delle start-up, il denaro non arrivava più dove doveva.

«Crede che oggi ci sia più innovazione rispetto a 20 anni fa?», chiede Yatin Mundkur, partner di Artiman, a Palo Alto, Calif. Mundkur non parla di innovazione nelle aree dei servizi di consegna nello stesso giorno o dei social network rispettosi della privacy, che sembrano essere più un’innovazione del momento che qualcosa che resti nel tempo. In questo momento entrambe le categorie sono in una fase di massima espansione. Quello a cui si riferisce è il tipo di ricerca e sviluppo di base che sono in grado di trasformare la vita, in settori come quello dell’energia, della medicina o della sicurezza alimentare, ben diversi dal limitarsi a ottimizzare le piattaforme pubblicitarie. Occorre fare una considerazione. L’intero mercato della pubblicità vale intorno ai 100 miliardi di dollari all’anno negli Stati Uniti (a livello globale è vicino ai 500 miliardi di dollari). Tuttavia, il prodotto interno lordo degli Usa è più di 16 trilioni di dollari. Questo significa che ogni società start-up finanziata dal venture capital alla ricerca di introiti pubblicitari insegue in realtà appena lo 0,6% dell’economia. In termini di occupazione, l’economia legata alla pubblicità offre lavoro soltanto a pochissimi milioni di persone, contro i 140 milioni di americani che hanno un impiego del tutto diverso. Tuttavia, l’inseguimento di un guadagno derivante dalla pubblicità include qualsiasi start-up che cerca subito di crescere, pensando poi in seguito a come monetizzare i suoi utenti «una volta che avrà individuato gli utenti finali».

Il problema non sono gli imprenditori, afferma Mundkur, ma i venture capitalist che li finanziano, portando a una distorsione del modo in cui la nostra società stanzia i capitali. Un motivo è che le società di venture-capital sono più grandi che mai e molte raggiungono più di 1 miliardo di dollari. Come conseguenza, hanno bisogno di scommettere di più. Venti o 30 anni fa, i fondi di venture capital non erano un asset class a sé stante come lo sono adesso. Le borse potrebbero essere positive, i tassi di interesse rimanere bassi e gli investimenti più tradizionali – persino intere regioni, tra cui le economie a rapida crescita del Brasile, Russia, India e Cina – sembrare instabili. I soldi, però, vogliono andare da qualche parte e così vanno nei fondi che investono nella tecnologia.

Secondo la National Venture Capital Association, nel 2013 è stata diretta una grande quantità di denaro nel settore software (11 miliardi di dollari), un dato mai raggiunto dal 2000, quasi il picco dell’ultima bolla tech. Le aziende di software consumano il 37% di tutti i finanziamenti di venture capital, la percentuale più alta da quando PricewaterhouseCoopers ha iniziato a raccogliere i dati sul settore, nel 1995. Complessivamente, lo scorso anno le società di venture capital hanno investito 29,4 miliari di dollari in 3.995 idee, ovvero il 7% più di dollari rispetto al 2012.

«Negli Stati Uniti abbiamo molti problemi del Secondo e Terzo mondo perché la nostra prima onda di infrastrutture è arrivata 50 anni prima rispetto al resto del mondo», dice Ajit Singh, un altro partner di Artiman. Poche persone direbbero che le infrastrutture statunitensi dei trasporti e dell’energia sono in pessime condizioni, ma la responsabilità della Silicon Valley è proprio quella di occuparsi di queste cose? «Uber dovrebbe ottenere 1,2 miliardi di dollari?», risponde Mundkur, riferendosi al servizio di noleggio auto basato su un’applicazione web. «Quante start-up potrebbero essere finanziate così?»

Un modo di pensare a come le società di venture capital direzionano i loro soldi è la gerarchia dei bisogni di Maslow, che descrive tutto ciò di cui una persona necessità, con in cima alla gerarchia le principali aspirazioni. Facebook resolve i bisogni del secondo livello più alto della gerarchia, ovvero, quello di essere stimati e approvati dagli altri. L’obiettivo di Atiman, ciò che rende concreta la sua critica alle società di venture capital, sono i bisogni che si trovano più in basso nella gerarchia, come quelli del cibo e della sicurezza. I risultati, come è possibile scoprire in un breve tour di alcune delle società nel portafoglio gestito del venture capital, sono ambiziosi. Un’azienda, Cellworks, ha passato sei anni a creare una fisiologia umana virtuale che la aiuti a trovare nuove combinazioni di medicinali contro malattie esistenti, tutto senza prima sperimentarli sugli animali e persino sugli umani. Un’altra, Nutrinsic, sta affrontando il problema di come nutrire i prossimi miliardi di umani sulla terra, allevando batteri che possano trasformare gli scarti della produzione di cibo in proteine commestibili. Una terza azienda finanziata da Artiman, Aditazz, sta applicando il software e le tecniche usate per automatizzare il design di microchips alla progettazione e alla costruzione di edifici. I risultati, afferma Aditazz, sono strutture che costano il 20% meno per la costruzione e la metà del tempo. L’azienda ha ottenuto contratti per costruire alcuni ospedali negli Stati Uniti e in altri Paesi.

È difficile non guardare alla serie di finanziamenti alle società con flussi di cassa negativi, società che stanno risolvendo problemi che affliggono solo una piccola parte della popolazione del pianeta, e pensare che il problema stia solo nell’entusiasmo mal riposto degli investitori, ovvero che la bolla delle società web potrebbe o meno essere in procinto di esplodere. In questo momento, non ci sono tante società tech pronte a sbarcare in borsa come durante la bolla delle dot-com alla fine degli anni 90. D’altra parte, società come Google e Facebook stanno acquistando qualsiasi cosa con valutazioni di miliardi di dollari, qualche volta decine di miliardi di dollari, uno dei motivi per cui le valutazioni restano alte. «Non so se c’è una bolla», dice Singh di Artiman, «ma c’è sicuramente un intero settore sopravvalutato».

La questione, però, non è se siamo o meno in una bolla. Ciò che importa è che cosa si fa con tutti i soldi che fluiscono nelle società tech quando il momento è buono. Non c’è bisogno di essere un venture capitalist per chiedersi se, dal punto di vista dei benefici delle prestazioni sociali nette, o anche solo dei ritorni a lungo termine sul capitale, il problema di sostituire i messaggi istantanei sia un investimento migliore delle innumerevoli altre potenziali attività che offre l’economia reale da 16 trilioni di dollari, se si guarda solamente agli Stati Uniti.

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