23 Aprile 2024, martedì
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Illegittimo il licenziamento disciplinare se il CCNL prevede una sanzione conservativa

La Corte di cassazione, con la recente sentenza del 18 marzo 2014, n. 6222 , ha, così, dato applicazione alle nuove norme contenute all’art. 18, comma 4, della legge n. 300/1970, nel testo novellato dalla cd. Riforma Fornero.

Queste prevedono, conviene rammentarlo, che nelle fattispecie in cui venga ad essere accertata la carenza degli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa del licenziamento individuale addotti dal datore di lavoro per l’insussistenza del fatto contestato ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa ai sensi delle norme del CCNL applicabile ovvero dei regolamenti aziendali, il giudice dovrà disporre l’annullamento del licenziamento e la condanna del datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore, oltre che al pagamento di un’indennità risarcitoria e dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti.

La vicenda decisa dalla Corte con la pronuncia in esame aveva preso le sue mosse dal licenziamento disciplinare intimato, dopo una sospensione cautelare, nei confronti di un lavoratore per l’uso improprio di strumenti di lavoro e in particolare del personalecomputer, delle reti informatiche aziendali e della casella di posta elettronica.

Sia il giudice di prime cure che la Corte d’appello avevano ritenuto illegittimo il licenziamento, rilevando che il fatto contestato corrispondeva ad una fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo applicabile, per il quale è stabilita solo unasanzione conservativa per l’infrazione consistente nell’utilizzazione “in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali”. In relazione alla valutazione operata dalle parti stipulanti tale contratto collettivo, secondo cui il comportamento rientrante nella tipizzazione da esse effettuata non è di gravità tale da giustificare il licenziamento, il datore di lavoro non avrebbe potuto irrogare una sanzione disciplinare più grave di quella “pattizia”.
La Suprema Corte, investita dalla società soccombente del ricorso per la cassazione della sentenza dei giudici del gravame, lo ritiene non fondato e conferma la pronuncia di merito.
La ricorrente, in particolare, aveva ravvisato vizio di motivazione nella sentenza impugnata laddove questa aveva ritenuto la coincidenza integrale tra la fattispecie disciplinare prevista dal contratto collettivo, secondo cui incorre nei provvedimenti dell’ammonizione scritta, della multa o della sospensione il lavoratore che “utilizzi in modo improprio strumenti di lavoro aziendali” (accesso a strumenti di comunicazione, strumenti di duplicazione ecc.), con il comportamento in concreto contestato al lavoratore e posto a base del licenziamento senza preavviso.

Infatti, afferma nel ricorso la Società datrice di lavoro, nella lettera di contestazione degli addebiti si registrava, tra gli illeciti imputati al lavoratore, l’esistenza nel computer affidatogli di programmi coperti da copyright non forniti dall’azienda e non necessari per lo svolgimento delle mansioni assegnategli, l’installazione nello stesso computer di softwarenon forniti dall’azienda e parimenti non necessari, l’avvenuta utilizzazione per innumerevoli volte durante l’orario lavorativo della casella di posta elettronica di dominio aziendale per scopi personali non giustificati, “eludendo le chiare informative e molteplici preavvisi effettuati dall’azienda”, con ciò, in sostanza, imputando al lavoratore anche la violazione del dovere di obbedienza di cui all’art. 2104, cod.civ., nonché la riscontrata presenza nello stesso computer di materiale di carattere pornografico.
La ricorrente segnala ai giudici di legittimità che, nella medesima lettera di contestazione, era stato indicato al lavoratore che l’utilizzo di programmi coperti da copyright comportava la violazione dell’art. 64 della legge n. 633/1941, con conseguente esposizione del datore di lavoro ai relativi profili di responsabilità. Insomma, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto di tali ulteriori e gravi elementi, limitandosi ad affermare che il comportamento contestato riguardava solo la fattispecie della utilizzazione in modo improprio di strumenti di lavoro aziendali.
Le argomentazioni poste dalla Suprema Corte a fondamento della propria decisione attengono essenzialmente alla insufficienza delle allegazioni della società ricorrente ai fini della dimostrazione che, contrariamente a quanto affermato dal giudice di appello, l’addebito mosso al dipendente riguardi infrazioni disciplinari autonome e diverse rispetto alla fattispecie contemplata dal contratto collettivo di uso improprio di strumenti aziendali.

Inoltre, la circostanza secondo cui la società avesse emanato disposizioni in ordine all’uso del computer aziendale, non prospetta, secondo la Corte, una violazione di distinti obblighi contrattuali, “rilevando solo ai fini della valutazione della gravità dell’inadempimento“.
Da altro passaggio della motivazione della sentenza in esame emergono, poi, alcuni palesi difetti nella fase di contestazione degli illeciti da parte della società datrice di lavoro, in quanto, da un lato, “la rilevata presenza di materiale pornografico”, di cui si fa menzione nel ricorso, non corrisponde, però, ad una specifica contestazione di addebito e, dall’altro, la contestazione di abuso di programmi coperti da copyright non è completata dalla indicazione di eventuali limiti posti alla utilizzazione dei programmi stessi, con conseguenti profili di responsabilità per l’azienda.
La sentenza della Suprema Corte che qui si commenta sembra doversi condividere, alla luce del quadro normativo in vigore che, per contro, presenta ombre e seri profili di illogicità. I giudici di legittimità, insomma, in presenza di una decisione di merito ineccepibile nella ricostruzione dei fatti di causa, non possono che rigettare il ricorso per cassazione, ma non si esimono dal rilevare, quasi a titolo di monito, che una più rigorosa costruzione del percorso disciplinare, in particolare, in sede di contestazione degli addebiti e quindi in sede dimotivazione del provvedimento espulsivo, avrebbe condotto ad esiti opposti.

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