23 Aprile 2024, martedì
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Little England alza le barricate

Tra tutti i temi che scuotono la scena politica inglese in questi anni, pochi bruciano come quello dell’immigrazione. Se c’è una dimensione della questione ‘europea’ – cioè se l’appartenenza all’Unione europea (Ue) porta più costi che benefici ai cittadini britannici – che emoziona più di ogni altra, è quella sulla libertà di cercare lavoro e uno standard di vita più alto in qualche altro stato membro dell’Unione.

Il fenomeno dell’United Kingdom Independence Party (Ukip), sconosciuto fino a poco fa e che promette di prendere fino al 25% alle prossime elezioni europee, è in gran parte il prodotto di un’ansia generalizzata sulla presunta ‘invasione’ da parte di cittadini dell’Europa dell’Est, capaci – si dice – di sovvertire il mercato del lavoro, gli equilibri finanziari del welfare state, e l’identità nazionale. Nigel Farage, il leader dell’Ukip, è arrivato a dire che, dovendo scegliere tra un paese più povero, ma inglese e uno più ricco, ma meno inglese sceglierebbe la prima opzione.

Contraddizioni a Downing Street
Nei primi nove mesi del 2013 sono stati 212,000 i nuovi arrivi, riflettendo forse l’apparente forza dell’economia inglese, ma rendendo ridicoli le promesse dei Conservatori al potere di ridurre il numero a ‘qualche decina di migliaia’. Davanti alla questione generale dell’immigrazione, i governi inglesi di questi anni si sono comportati in modo alquanto contraddittorio.

Da una parte, in una strategia di lungo termine, hanno favorito qualsiasi forma d’immigrazione che poteva abbassare i costi del lavoro, elemento portante di una rivoluzione dall’alto del mercato del lavoro che ha portato quello inglese a conoscere livelli di flessibilità e precarietà come nessuno altro in Europa (con il risultato di avere tassi di disoccupazione più bassi, ma anche livelli di produttività minori degli altri).

Dall’altra hanno dovuto tenere sempre d’occhio quelle forme di isolazionismo e protezionismo sociale espresse in modo militante dalla stampa popolare di destra e dall’Ukip. Per far quadrare questo cerchio i governi – soprattutto la coalizione attuale – hanno adoperato misure sempre più restrittive sull’accesso degli immigrati ai benefici del welfare state, dal sistema sanitario ai sussidi contro la disoccupazione.

Benefit tourism
In questa visione ha un grande ruolo lo spettro del ‘benefit tourism’, cioè l’idea che una parte significativa degli immigrati è attratto dal Regno Unito solo dall’idea che lì si può avere un accesso immediato al welfare. Un deputato Tory ha parlato di ‘uno tsunami di profughi dalla crisi della Eurozona’, tutti ansiosi di approfittare del ‘nostro sistema di welfare gratuito’.

Nessuna dimostrazione del numero ultra-esiguo di individui che possono essere identificati come ‘turisti’ in questo senso – in media forse 0.1% degli ultimi arrivi secondo l’Ue – ha potuto scoraggiare il primo ministro David Cameron e i suoi a fare propaganda presso paesi come Bulgaria e Romania per scoraggiare gli aspiranti immigranti ad arrivare sul suolo inglese. Il governo ha anche mandato nelle zone di Londra ad alta concentrazione di immigrati furgoni con pubblicità che promettevano di facilitare il loro ritorno a casa.

Asta passaporti
Il governo che compie questi gesti è lo stesso che ha suggerito di mettere i passaporti inglesi in vendita – attraverso aste con base di partenza £2.5 milioni di sterline – e che preme per una linea morbida nella vicenda ucraina per non scoraggiare il flusso di capitali e di plutocrati russi verso Londra.

Ci sono poche nazioni in un mondo globalizzato che non hanno problemi di immigrazione. In un’epoca di crisi economica poi, i protezionismi di ogni tipo si moltiplicano come virus. Quello che rende il caso inglese peculiare è il contrasto tra l’indignazione che accompagna gli ultimi flussi dall’Europa, e l’accettazione, più o meno consolidata, di quelli provenienti dall’ex-impero negli ultimi cinquant’anni.

I vari polacchi, ungheresi, rumeni ecc. si trovano identificati con quello che una certa Gran Bretagna – ‘little England’ – detesta nell’Ue: il suo ugualitarismo, comunitarismo e rifiuto di accettare la responsabilità per le conseguenze delle sue scelte. Che questo risentimento contro i risultati della liberalizzazione dei mercati del lavoro proviene dalla nazione che più di ogni altra negli anni ha predicato ai suoi partner europei la liberalizzazione di tutti i mercati non può che provocare accuse di ipocrisie e doppiezze da tutte le altre.

Su una popolazione di 63 milioni abitanti, gli immigrati dall’Ue sono circa 2.3milioni. Che qualche migliaia di loro possa trovarsi a dipendere, volendo o nolendo, temporaneamente, dal sistema del welfare inglese e questo provochi una reazione così forte dimostra semmai la fragilità degli equilibri economici e sociali nella Gran Bretagna di questi tempi.

Evidentemente è più debole di quello che il governo vuole fare credere la fiducia popolare nella sua insistenza che lì la ripresa è già in atto, e che tutti possono stare tranquilli.

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