26 Aprile 2024, venerdì
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Bosnia, come uscire dalla claustrofobia politica

Dopo un inizio disordinato, in alcuni casi violento, la protesta che ha scosso la Bosnia Erzegovina si è mostrata legata a ragioni puramente socio-economiche e si è indirizzata verso forme di mobilitazione civica assolutamente nuove per il paese. Cerchiamo di analizzarne il significato, oltre che di inserirla nel contesto più generale di un paese che stenta a trovare la sua strada verso l’integrazione europea, al contrario di molti stati vicini.

Da Tuzla ai plenum 
Scaturita il 5 febbraio da un’iniziativa dei lavoratori di due società privatizzate e in via di fallimento a Tuzla, importante centro industriale nell’ex-Jugoslavia, la protesta ha trovato sostegno in alcuni gruppi organizzati tramite i social media. Le manifestazioni si sono estese a tutte le principali città della Federazione di Bosnia Erzegovina, una delle due entità che compongono il paese, ma anche, in forme diverse, a centri dell’altra entità, la Repubblica Srpska.

Inizialmente, atti di violenza gratuita hanno generato preoccupazione. Ma le proteste hanno quasi subito prodotto assemblee di cittadini, chiamati plenum: una sorta di democrazia diretta. Creati nella maggior parte delle città della Federazione, i plenum si sono concentrati su istanze legate alle realtà locali: soprattutto l’abolizione dei privilegi concessi ai politici dopo la fine dei loro mandati e la revisione degli accordi di privatizzazione di alcune società pubbliche.

Sotto la pressione dei gruppi di protesta, alcune importanti amministrazioni locali si sono dimesse. I plenum, in molti casi, stanno ora negoziando con le assemblee municipali e cantonali la nomina dei nuovi esecutivi, che vorrebbero composti principalmente da tecnici. Nel frattempo, anche se ridotti di numero, i cittadini continuano a scendere in piazza, pacificamente, quasi ogni giorno.

Tutto ciò rappresenta sicuramente un elemento nuovo nel claustrofobico panorama politico della Bosnia. Da tempo, gli osservatori lamentano un’eccessiva passività della società bosniaca che tende a sopportare apaticamente soprusi e incompetenze di una classe politica diffusamente corrotta, arricchitasi e mantenutasi al potere grazie a un astuto miscuglio di etno-nazionalismo e clientelismo.

Entrambi gli elementi sono stati favoriti da un sistema istituzionale, quello uscito dagli accordi di Dayton, basato sulla separazione e divisione del potere tra bosgnacchi, croati e serbi secondo un complesso sistema di autonomie locali. Questo non ha certo favorito l’integrazione sociale, e ancor meno la governabilità.

Le radici della frustrazione dei bosniaci sono quindi sia economiche che politiche. Spinti da disoccupazione e precarietà (aggravate dalla crisi mondiale), i cittadini vorrebbero essere governati da una classe politica più efficiente e meno corrotta. Ad accentuare la loro demoralizzazione contribuisce senz’altro il fatto che la maggior parte dei paesi balcanici vicini sta facendo progressi nell’integrazione europea. Mentre i politici bosniaci, per timore che maggiori controlli e trasparenza li priverebbero di molti privilegi, ostacolano le riforme.

Integrazione europea
La comunità internazionale, che da qualche anno ha ridotto la propria presenza e delegato al processo d’integrazione europea il compito d’incoraggiare le riforme, non è stata in grado di trovare la strategia giusta per scardinare il meccanismo che tiene al potere l’attuale classe dirigente. La quale è evidentemente impermeabile al “potere di attrazione” di Bruxelles.

Da un lato, l’Ue si è impegnata in negoziati diretti con i partiti politici per completare una riforma costituzionale richiesta da una sentenza della Corte europea per i diritti umani (Sejdić-Finci, 2009). Ha però dovuto dichiararsi sconfitta, proprio a tre mesi dalle consultazioni europee, e a sette dalle elezioni generali in Bosnia.

D’altro canto, se l’Ue dovrà ripensare la sua strategia, le residue strutture di Dayton non sembrano meglio equipaggiate per sciogliere l’impasse. L’ufficio dell’Alto rappresentante con mandato Onu, detiene ancora poteri esecutivi (i Bonn powers). Ma le conseguenze dell’ultima occasione in cui sono stati (maldestramente) usati sono senza dubbio all’origine di alcuni dei guai presenti, giacché la crisi d’ingovernabilità è particolarmente pronunciata nella Federazione.

È quindi importante chiedersi: dove andranno i nuovi movimenti di protesta? Saranno i plenum in grado di coagularsi in veri movimenti politici, capaci di offrire un’alternativa, perlomeno a livello locale, allo strapotere dei partiti tradizionali? I rischi di un fallimento sono grandi.

Esistono già tentativi dell’establishment politico di cooptare le proteste nello status quo, o di allungare i tempi delle riforme. Vi è anche un rischio di calo dell’entusiasmo popolare, o di un logoramento dei movimenti. La speranza è comunque che da questo nuovo attivismo civico nascano delle novità politiche, meglio se in tempo per le elezioni del prossimo ottobre.

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