27 Aprile 2024, sabato
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L’intelligenza emotiva nelle organizzazioni

Il libro “Intelligenza Emotiva” di Daniel Goleman, pubblicato nel 1995, è stato un vero toccasana per il mondo del business. Il testo di Goleman ha dato grande risalto a ricerche scientifiche (realizzate in primis da Peter Salovey e John Mayer) che dimostravano ciò che si sperava fosse vero, ovvero che l’empatia, le capacità relazionali, il governo delle emozioni fossero più importanti delle mere competenze tecniche. Chi lavora all’interno delle organizzazioni sa bene che questi ingredienti sono una merce rara. E’ molto più facile incappare in persone (e in capi) arroganti, egocentriche, poco inclini alla comunicazione e con emozioni talvolta fuori controllo. Sapere, quindi, che l’intelligenza emotiva rappresenta la base per il successo personale e l’eccellenza organizzativa appariva come una vera e propria rivincita su tutto ciò che in azienda spesso era assente, oltre che una speranza di miglioramento del clima di lavoro.

Il grande merito di Goleman è stato quello di sdoganare definitivamente le “competenze soft” dal loro ruolo ancillare all’interno delle imprese e di far entrare a pieno titolo le emozioni tra gli aspetti di assoluta rilevanza nel lavoro. Il successo del libro si è presto trasformato in forti investimenti formativi sullo sviluppo dell’intelligenza emotiva e in progetti di riorientamento dello sviluppo professionale dei manager.

Se appaiono del tutto giustificate le esortazioni di Goleman a prestare attenzione alle competenze emotive per il successo personale e il miglioramento delle performance aziendali, un discorso a parte merita l’adozione di questi concetti nella realtà d’impresa. L’enfasi sulla predominanza dell’intelligenza emotiva sull’expertise tecnica è assolutamente condivisibile all’interno di un testo che si propone di portare alla ribalta questo tema. Molto meno giustificabile è l’adozione acritica di questi concetti che si è riscontrata in alcune aziende.
In seguito al successo del libro di Goleman, ho visto imprese organizzare a pioggia sessioni di training focalizzate sullo sviluppo dell’intelligenza emotiva per tutti i collaboratori. L’equazione alla base di questa decisione era molto semplice: se l’intelligenza emotiva porta al miglioramento delle performance individuali, sviluppiamo queste competenze in tutti i collaboratori e avremo un sicuro ritorno economico. Nella realtà, raramente si è ottenuto un risultato pari alle aspettative. Questo non perché le argomentazioni di Goleman non siano corrette, quanto piuttosto per il fatto che all’interno delle organizzazioni i fabbisogni formativi sono assolutamente eterogenei e diversificati. Talvolta, ad esempio, si è puntato sullo sviluppo delle competenze emotive di persone che ricoprivano ruoli organizzativi per i quali erano privi delle competenze tecniche di base o delle informazioni operative per svolgere al meglio le proprie mansioni. E’ evidente che se non si conosce come svolgere il proprio lavoro, il miglioramento delle doti empatiche non porta molto lontano.

Goleman ritiene (e Salovey e Mayer prima di lui) che la mancanza di intelligenza emotiva ostacola l’uso dell’expertise tecnica. Questo è certamente vero. Tuttavia, altrettanto vero è che una bassa expertise tecnica può ostacolare l’uso dell’intelligenza emotiva: si pensi ad esempio ad una persona dotata di forte iniziativa e proattività, priva però di competenze di base per svolgere il proprio lavoro.

Un aspetto finale che vorrei sottolineare riguarda il fatto che – come Goleman giustamente sottolinea – molti sono saliti al vertice delle imprese pur in mancanza di competenze emotive. Per l’autore questa situazione sembra essere una sorta di retaggio di un passato che non esiste più, perché nella complessità del mondo di oggi la collaborazione tra le persone, la flessibilità e le relazioni interpersonali faranno la differenza tra le imprese di successo e quelle mediocri. Solo leader dotati di grande intelligenza emotiva potranno quindi guidare le imprese di successo.

Personalmente non sono d’accordo con questa affermazione (anche se mi piacerebbe moltissimo che fosse vera). Penso che in futuro continueranno a salire al vertice, e ad ottenere ottimi risultati, persone prive di intelligenza emotiva. La vera differenza consisterà nella sostenibilità di questi risultati. I leader imperscrutabili (alla Mr. Spock di Star Trek), arroganti, privi di doti empatiche e di capacità relazionali forse potranno addirittura raggiungere la vetta più velocemente di quelli competenti emotivamente. D’altra parte, la legge della frusta per ottenere un’accelerazione repentina delle performance funziona ancora benissimo (anche nella complessità odierna). Se però siamo alla ricerca del mantenimento di alte performance e della crescita di competitività prospettica dell’organizzazione, ci accorgeremo presto che questa tipologia di leader non è in grado di governare la crescente complessità dei contesti relazionali e organizzativi in cui opera.

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