19 Aprile 2024, venerdì
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Legittimo il licenziamento per giusta causa di chi registra le conversazioni dei colleghi a loro insaputa

È legittimo il licenziamento di chi registra le conversazioni dei superiori e dei colleghi a loro insaputa, «per la grave situazione di sfiducia, sospetto e mancanza di collaborazione venutasi a creare all’interno dell’equipe medica di chirurgia plastica».

Con una efficace, sintetica e ben motivata decisione (Cass. Sez. Lav., 21 novembre 2013, n. 26143), la Suprema Corte di Cassazione ha confermato la decisione dei giudici dell’Appello che avevano ritenuto legittimo il licenziamento senza preavviso intimato nei confronti di un medico che, al fine di supportare la propria denunzia per il “mobbing” asseritamente subito dal primario del reparto ove egli prestava la sua attività professionale, aveva – come detto – registrato brani di conversazione di numerosi suoi colleghi a loro insaputa, per poi utilizzarli in sede giudiziaria.

La decisione dei giudici di merito è stata ritenuta dalla Cassazione adeguatamente motivata avendo essi accertato la gravità del fatto oggetto dell’addebito disciplinare posto a base del licenziamento “attraverso argomentazioni congrue, ancorate a dati istruttori precisi ed immuni da qualsiasi rilievo di ordine logico-giuridico”.

Infatti, secondo la Corte, le risultanze processuali avevano dato ampia contezza del fatto che il medico licenziato avesse tenuto un comportamento tale da integrare una evidente violazione del diritto alla riservatezza dei suoi colleghi, “avendo registrato e diffuso le loro conversazioni intrattenute in un ambito strettamente lavorativo alla presenza del primario ed anche nei loro momenti privati svoltisi negli spogliatoi o nei locali di comune frequentazione”, utilizzandole strumentalmente, come detto, per una denunzia di mobbing, rivelatasi, tra l’altro, infondata.

Un elemento di interesse della pronuncia in esame risiede, però, anche (e, forse, soprattutto) nella valorizzazione – ai fini della affermazione della legittimità del recesso datoriale – della sopravvenuta sfiducia, nei confronti del medico che aveva tenuto la condotta descritta, non solo da parte del datore di lavoro – per l’oggettiva gravità dei fatti addebitatigli e puntualmente provati – ma anche da parte dei colleghi che avevano subito una intollerabile invasione nella propria sfera privata.

Afferma, infatti, la Corte, del tutto condivisibilmente, che il “clima di mancanza di fiducia che si era venuto a creare nei confronti del ricorrente” aveva comportato il venir meno di un elemento “indispensabile per il miglior livello di assistenza” e quindi per garantire la “qualità del servizio” della struttura sanitaria nella quale erano avvenuti i fatti, “con grave ed irreparabile compromissione anche del rapporto fiduciario che avrebbe dovuto permeare il rapporto tra il dipendente e l’Azienda ospedaliera datrice di lavoro”.

In altri termini, la Corte afferma il principio di diritto secondo cui il venir meno dell’elemento fiduciario ha rilevanza non solo nei rapporti tra datore di lavoro e dipendente, ma anche nei rapporti tra i dipendenti, in particolare quando un tale elemento fiduciario permea le mutue relazioni di un gruppo di lavoratori la cui sintonia e il cui reciproco affidamento sull’altro condizionano la prestazione lavorativa nel suo insieme.

Si tratta, con ogni evidenza, dell’affermazione di un principio di portata particolarmente innovativa.

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