29 Marzo 2024, venerdì
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Il Social Network come Social Human Resource: luci ed ombre del mondo del Social Recruiting

La ricerca di un posto di lavoro, per i giovani e per tutti coloro che lo hanno perso e che non fanno più parti della categoria “juniores”, sta assumendo la connotazione di un problema insormontabile. Quasi nessun Governo al mondo, può vantarsi di non annoverare tra le molteplici difficoltà da affrontare, quello della crescente disoccupazione. In un’epoca in cui Il Cyberspazio si propone come “stanza di compensazione” in cui riversare tutte le proprie esigenze, rimostranze, pulsioni, emozioni, ma a cui affidarsi anche per intercettare possibili soluzioni a problemi quotidiani, appare oltremodo naturale che ci si possa affidare ad esso per tentare l’ingresso nel mondo del lavoro. Quindi, ancora una volta, lo sterminato oceano di Internet, con le sue innumerevoli applicazioni e possibilità, assume la veste di elemento risolutore anche la costruzione di un futuro lavorativo. Naturalmente, anche in questo caso, non scarseggiano i portali da cui è possibile scaricare informazioni riconducibili ad offerte di lavoro, così come non difettano di presenze quei portali che si propongono come reti sociali in grado di sviluppare contatti professionali.

Tra questi, Linkedin è certamente il più noto, con suoi oltre 200 milioni di iscritti, censiti a gennaio 2013. Ma la sua numerosità impressiona anche da un punto di vista geografico, essendo presente, con i suoi servizi, in oltre 200 paesi al mondo. Anche per quanto concerne i ritmi di incremento dei membri, i numeri parlano chiaro: un milioni di iscritti a settimana. Con la maggioranza dei servizi offerti gratuitamente (ad esclusione di alcuni a pagamento), Linkedin è sostanzialmente un “social” pensato e sviluppato per accrescere i propri contatti professionali. Dalla sua sede di Palo Alto, in California, Linkedin controlla circa 150 comparti economici oltre a 400 “contesti territoriali economici”. Un aspetto interessante risiede nelle percentuali degli iscritti: ben il 56% risiede al di fuori degli Stati Uniti. Gli utenti europei ammontano ad oltre 22 milioni, e le nazioni che si annoverano tra le maggiori utilizzatrici, sono l’Olanda, la Francia e l’Italia. Anche se Linkedin è soprattutto un portale che mira all’incremento di contatti professionali, molti dei suoi estimatori hanno intravisto in esso un formidabile strumento di collocamento nel mondo del lavoro, dalle ineguagliabili potenzialità. Per certo, la possibilità di inserire in un portale professionale mondiale il proprio curriculum, che rappresenta per ognuno di noi una vera e propria carta di identità professionale per aziende e professionisti di ogni tipo, alimenta nella mente dell’uomo spazi di interpretazione che possono condurre a superficiali e facili considerazioni.

Con queste premesse, appare abbastanza chiaro lo schema psicologico di colui che decide registrarsi su Linkedin, per “costruire” un profilo professionale che gli possa consentire di accedere rapidamente nel mondo del lavoro, grazie all’utilizzo di uno strumento munito di straordinarie potenzialità . Ma la realtà alle volte supera la fantasia, ed è esattamente ciò sta accadendo nel mondo dei Social Human Resource (SHR). Innanzitutto, la prima domanda che ci si dovrebbe porre è la seguente: in tempi di crisi del lavoro, come quello che l’intero pianeta sta vivendo, ha ancora senso preparare un curriculum? Qualcuno potrebbe rispondere che di questi tempi sarebbe meglio ricercare un lavoro per il quale non siano richieste specifiche competenze o particolari professionalità, ma forse la domanda migliore potrebbe essere la seguente: ciò che inseriamo nei curricula online può effettivamente influenzare le nostre candidature per un posto di lavoro?

Una risposta la possiamo ricercare all’interno dell’indagine “Il lavoro ai tempi del social recruiting e della digital reputation” condotta nel 2013 da Adecco Italia, in collaborazione con l’Università Cattolica del Sacro Cuore.
Sfogliando i risultati dell’indagine, si evince che le relazioni sociali di tipo online, da sole, consentono unicamente di entrare in contatto con persone munite di uno status professionale (o lavorativo) superiore, e ciò permette solo di arricchire il proprio “profilo” in termini di qualità e considerazione. Ma secondo alcuni intervistati, che però sono in possesso di un posto di lavoro, la strada migliore da intraprendere per la ricerca di una collocazione lavorativa, è quella che si basa su un mix di molteplici strumenti: gli annunci online (40%), le agenzie per il lavoro (34%) e la rete di parenti e amici (32%). In altri termini, sempre secondo l’indagine, le sole relazioni social online non offrirebbero migliori prospettive di lavoro rispetto a quelle a cui canonicamente abbiamo fatto riscorso per decenni.

Tuttavia, tra i social online più utilizzati dai responsabili delle risorse umane, Linkedin primeggia con un 42% di preferenze, seguito da Facebook (29%) e da Twitter (9%). Ma per quanto concerne la “massa critica” dei disoccupati, essi si affidano prevalentemente a siti di offerte di lavoro (94%), le App (39%), Facebook (30%) e a Twitter (26%). Per quanto riguarda l’influenza dei diversi canali utilizzati, le valutazioni sono molto differenti: i valutatori gradiscono Linkedin (78%), e i siti di matching (72%). Coloro che sono alla ricerca di un lavoro, ripongono la loro fiducia principalmente sui siti di collocamento (70%), su Linkedin (29%) e dal “sempre verde” Facebook (20%).

Ma ciò che assume un particolare interesse, è la questione della digital reputation, cioè la verifica dell’effettiva consistenza e attendibilità del profilo professionale del candidato. Come asseriva Haruki Mukurami , si potrebbe sostenere che “La barriera tra una sana fiducia in sé stessi e un malsano orgoglio è molto sottile”, e forse è proprio su questo aspetto che la diffidenza sull’affidabilità delle “identità online”, assume una rilevanza sostanziale per i recruiter. Secondo l’indagine, il 77% dei selezionatori, verifica le informazioni personali di ogni singolo personal skill, attraverso ricerche approfondite e condotte principalmente con i motori di ricerca. Obiettivo: raccogliere il maggior numero di elementi che possano consentire una valutazione approfondita e completa dei candidati. E non è certamente un caso che i responsabili delle risorse umane, hanno dichiarato che nel 12% dei casi, hanno escluso aspiranti che avevano fornito informazioni incomplete o non veritiere. Un altro aspetto da non sottovalutare è quello della richiesta di accesso, da parte dei reclutatori, ai profili Facebook dei candidati, una pratica testimoniata dall’1% dei candidati e dal 5% dei reclutatori.

Ciò che traspare da questa indagine, è uno spaccato di una società in bilico tra l’utilizzo delle più moderne tecnologie di comunicazione online e la diffidenza verso le stesse. Se è innegabile che il mondo dei social media ha offerto ai datori di lavoro un terreno fertile da cui prelevare i frutti, è altresì vero che esso assume, nel contempo, la connotazione di un campo minato colmo di pericoli. Le PMI, nonostante gli indicatori dimostraino il loro crescente livello di interesse verso l’utilizzo di strumenti di ricerca online delle professionalità di cui necessitano, non sono ancora convinte della loro attendibilità. Di questo, la massa critica dei “cercatori di lavoro” ne è consapevole al punto tale da confidare ancora nelle agenzie di collocamento, nelle richieste fatte ad amici e parenti e nel tradizionale “porta a porta” effettuato solitamente tra le aziende del territorio in cui vivono. Anche il mito della raccomandazione resiste e continua a diffondersi nelle nuove generazioni. Secondo un sondaggio condotto nel 2013 dal settimanale cattolico Famiglia Cristiana, in Italia, su 800 maturandi delle scuole medie superiori, ben il 76% ha asserito che per trovare lavoro occorre “conoscere le persone che contano” e solo per il 48% è fondamentale essere preparati e competenti. Quasi sette maturandi su dieci (67%) non hanno la benché minima idea di quali siano i settori produttivi nel Paese in grado di offrire possibilità lavorative. Il 53% ritiene di non essere capace di comprendere come compiere le proprie scelte lavorative nella vita e il 60% è convinto che il futuro che li attende sarà sicuramente peggiore di quello dei propri genitori. Circa la metà (51%) ritiene che nella vita sia fondamentale avere fortuna.

In un paese come l’Italia, in cui si guarda ai “giovani” come elemento su cui fondare le basi per un rinnovamento globale, sarebbe opportuno ripristinare la cultura dell’onesta, della responsabilità, della meritocrazia e della legalità. È un compito che spetta inesorabilmente alle “vecchie” generazioni.
Saranno in grado di farlo?

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