19 Aprile 2024, venerdì
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Letta&Bersani, attenti a quei 2

Ce n’est qu’un début, continuons les combats, dicevano i gauchiste del Maggio francese. Vale a dire «non è che l’inizio, continuiamo le lotte». Paiono averlo detto nei giorni scorsi, gli alfieri della sinistra piddina, Miguel Gotor e Stefano Fassina, intervenendo entrambi durante la fiducia al governo di Matteo Renzi, l’uno al senato, l’altro alla camera. Entrambi hanno poi ribadito il concetto, se non fosse bastato, il primo rilasciando ieri un’intervista al Corsera, il secondo parlando l’altro ieri con L’Unità. Il senso degli interventi è stato il medesimo: votiamo per te, caro Matteo, per convenienza politica, perché non è possibile, per il momento, fare diversamente, ma non considerare il nostro sì come qualcosa da mettere per sempre nel carniere. Anzi, Fassina l’ha dichiarato chiaro e tondo: «Voterò esaminando il merito di ogni provvedimento». Roba delle vecchio opposizioni costruttive, stile Pci che dava l’appoggio esterno al governo di Giulio Andreotti nel 1978. O come, più o meno, ha promesso di fare Silvio Berlusconi, con la sua opposizione ragionevole all’esecutivo del segretario Pd. E sul Jobs act, la riforma del lavoro, Fassina ha già pronunciato, alto e squillante, proprio nel suo discorso alla Camera, il suo niet preventino. La disciplina di partito, quella invocata, se non minacciata contro Renzi quando, nel 2012, perse le primarie con Pier Luigi Bersani, pare un pallido ricordo se, lo stesso Fassina, l’altro ieri, a fiducia ancora da accordare, era passato all’attacco chiedendo le dimissioni della ministra Federica Guidi, perché considerata vicina a B. E Gotor? Sul Corsera ha definito il discorso del premier «con pochi contenuti programmatici». E alla cronista che gli ricordava il taglio del cuneo fiscale, il pagamento dei debiti delle pubbliche amministrazioni, il piano edilizio sulle scuole, il ricercatore dell’Università di Torino ha risposto: «Tutti titoli. Le coperture economiche dove sono?». E poi, tanto per essere sicuro che il presidente del consiglio avesse afferrato il concetto, ha chiarito che, a suo avviso, «Renzi sta governando con i voti presi da Bersani, tanto disprezzati, e con i programmi di Enrico Letta». Letta che peraltro bersaniani e cuperliani hanno defenestrato allineati e coperti col segretario Pd e tributando a quest’ultimo un plebiscito bulgaro nelle decisiva direzione, ma tant’è. Sul saluto calorosissimo, quasi plateale, fra l’ex-segretario e l’ex-premier, in aula alla Camera, proprio sotto gli occhi del premier, l’ex-consigliori di Bersani, ha detto poi che «chi è animato da spirito riformista e ragionevole si sente ben rappresentato da quell’abbraccio», perché «l’Italia ha bisogno come il pane di persone per bene e di una classe dirigente seria. La cifra che unisce Enrico e Pier Luigi è la serietà coniugata al riformismo». D’altra parte, come ha aggiunto dopo, «i premier passano, è importante, invece, che resti il Pd». La cosa singolare è che, come emerse nei giorni convulsi delle elezioni presidenziali dello scorso anno, Gotor non è neppure iscritto al Pd. O meglio, non lo era fino all’anno scorso, chissà che non ci abbia ripensato in occasione dell’ultimo congresso. In ogni caso, nell’intervista, non si è peritato dal suggerire la separazione dei ruoli di premier e di segretario «perché l’identificazione trasforma il partito nel comitato elettorale di un leader». Il governo Renzi è appena nato, che già ne prendono le distanze. Che cosa potrebbe succedere nel segreto dell’urna di un voto segreto, e ce ne saranno a meno che Renzi avanzi a colpi di fiducia? Se lo chiedono in molti al Nazareno. Evidentemente l’avere messo in piedi, Renzi, una compagine governativa con ministri come Andrea Orlando, giovane turco, o Maurizio Martina, bersaniano d’acciaio, non ha ricucito affatto lo strappo fra maggioranza e minoranza. Ora uscito praticamente di scena l’immaginifico intellettuale mitteleuropeo Gianni Cuperlo, mandato all’arrembaggio a prendersi gli schiaffi congressuali, tornano in pista Bersani e Letta.

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