23 Aprile 2024, martedì
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Avvocati, perché la professione può già essere esercitata in forma societaria

In attesa che il Parlamento rimedi alla scelta del Governo di non emanare il decreto legislativo in materia di società tra avvocati, ci si interroga se la professione forense possa essere esercitata ugualmente in forma societaria.

La tesi della non applicabilità delle Stp
Secondo una certa corrente di pensiero, la disciplina della società tra professionisti, delineata dall’articolo 10 della legge 183/2012 e dal Dm n. 34/2013, non sarebbe applicabile agli avvocati perché l’articolo 5 della legge 247/2012, che delegava il Governo a disciplinare le società tra avvocati, conserverebbe pur sempre i suoi effetti, anche se oramai il termine di sei mesi, entro il quale quella delega avrebbe dovuto essere esercitata, è inutilmente spirato.
A me pare che la tesi non sia condivisibile perché, come ho già avuto modo di precisare (Guida al diritto on line del 9 dicembre 2013), è fondata su un precedente della Corte costituzionale (sentenza 4 maggio 1990 n. 224) che non si attaglia alla fattispecie: in quel caso, infatti, il termine per l’esercizio della delega non era scaduto. Dunque, in assenza di una disciplina ad hoc, dovrebbe consentirsi la costituzione di società tra avvocati ai sensi dell’articolo 10 della legge 183/2011.

Vuoto normativo si o no?
Ma ancor meno condivisibile è la tesi di quanti ritengono che il vuoto normativo venutosi a creare permetterebbe agli avvocati unicamente di esercitare la professione o nelle forme, consuete, dell’associazione ovvero in quelle della società disciplinata dal Dlgs 96/2001.
Ad una interpretazione così restrittiva osterebbe proprio quella stessa giurisprudenza della Corte costituzionale invocata per salvare gli effetti dell’articolo 5 della legge professionale.
In quel lontano precedente il Giudice delle leggi aveva affermato che la legge delega “sotto il profilo del contenuto è un vero e proprio atto normativo” dotato di efficacia erga omnes e le cui norme hanno la struttura e l’efficacia proprie dei principi e dei criteri direttivi; aveva anche precisato che i principi e criteri direttivi “presentano nella prassi una fenomenologia estremamente variegata, che oscilla da ipotesi in cui la legge delega pone finalità dai confini molto ampi e sostanzialmente lasciate alla determinazione del legislatore delegato a ipotesi in cui la stessa legge fissa principi a basso livello di astrattezza, finalità specifiche, indirizzi determinati e misure di coordinamento definite o, addirittura, pone principi inestricabilmente frammisti a norme di dettaglio disciplinatrici della materia”, aggiungendo che in tale ultimo caso “non si può negare che la legge di delegazione possa contenere un principio di disciplina sostanziale della materia o una regolamentazione parziale della stessa” (Corte Cost. 04.05.1990 n. 224).

Da queste premesse, la Corte aveva fatto discendere la sussistenza in capo alle regioni (o alle province) dell’interesse ad impugnare immediatamente le disposizioni di una legge di delega che, per il loro contenuto, siano immediatamente lesive delle loro competenze.
A me sembra che questo interesse possa sussistere fino a quando la legge conserva i suoi effetti, e cioè durante il termine fissato dal legislatore per l’esercizio della delega.

Tuttavia, se la giurisprudenza della Corte costituzionale potesse autorizzare la tesi secondo la quale una legge di delega sopravvive all’eventuale inutile decorso del termine entro il quale avrebbero dovuto emanarsi i decreti delegati, allora dovrebbe ritenersi che i principi ed i criteri direttivi siano dotati di una loro autonoma efficacia e che nel caso della società tra avvocati la mancata attuazione della delega non avrebbe creato alcun vuoto legislativo.

Nella delega regole chiare
In particolare, se i principi stabiliti dall’articolo 5 della legge 247/2013 avessero le caratteristiche di “norme di dettaglio disciplinatrici della materia”, dovrebbe coerentemente ammettersi già oggi la costituzione di società tra avvocati, a condizione, ovviamente, che lo statuto sia conforme a quei principi.

Innanzitutto, però, occorrerebbe chiedersi se i principi e criteri direttivi di cui all’articolo 5 della legge professionale abbiano un sufficiente livello di “concretezza” e, in secondo luogo, se – nonostante ciò – la costituzione di una società composta da avvocati incontri un limite nella esistenza di altre disposizioni di legge.

Orbene, a me pare che difficilmente si possa negare all’articolo 5 ed ai principi ivi enunciati la consistenza di norme di dettaglio.

Il legislatore, prevedendo che l’esercizio della professione forense in forma societaria è consentito esclusivamente a società di persone, società di capitali o società cooperative, ha espressamente rinviato alle forme societarie disciplinate dal codice civile, rispetto alle quali ha stabilito – attraverso i principi in parola – alcune specifiche deroghe, a cominciare dal divieto di costituire società multidisciplinari.

Le specificità dei legali
In altri termini, la società tra avvocati devierebbe dallo schema tipico solo: a) per ciò che concerne la sua composizione, non potendo fare parte della compagine altri professionisti e soci d’investimento; b) per la impossibilità dell’avvocato di essere socio in più di una società; c) per la denominazione sociale, che dovrebbe contenere la dicitura “società tra avvocati”; d) per la composizione dell’organo di gestione, riservato solo ai soci; e) per la esecuzione dell’incarico che, seppur affidato alla società, dovrà essere svolto soltanto da soci professionisti iscritti all’albo); f) per la responsabilità del socio che ha eseguito la prestazione, che risponderà sempre in solido con la società; g) per la iscrizione della società in una apposita sezione speciale dell’albo professionale; h) per l’assoggettamento della società al controllo disciplinare dell’ordine di appartenenza; i) per le cause di esclusione del socio, aggiungendosi a quelle tipiche le ipotesi di sospensione, cancellazione o radiazione del socio dall’albo professionale; l) per la qualificazione dei redditi prodotti dalla società come redditi di lavoro autonomo, anche ai fini previdenziali; m) per la natura della attività svolta dalla società, che non sarà mai d’impresa e non sarà soggetta alle procedure concorsuali.

Per il resto, la società sarebbe disciplinata dalle norme che regolano in generale ciascun singolo tipo societario, ferma restando la applicazione delle disposizioni sull’esercizio della professione di avvocato in forma societaria di cui al Dlgs n. 96/2001, in quanto compatibili.

A me pare, quindi, che i principi di cui all’articolo 5 legge 247/2012 siano suscettibili di immediata applicazione proprio in considerazione del loro contenuto, che non richiederebbe alcuna particolare specificazione di dettaglio.

Stabilito che i principi e criteri direttivi posti dalla legge di delega possiedono quel grado di specificità e concretezza sufficiente a delineare, anche in assenza di loro attuazione, il modello della società tra avvocati voluto dal legislatore, occorre infine verificare se, in ipotesi, alla possibilità di costituire una tal società si frappongano altre disposizioni normative.

Le altre norme da considerare
Orbene, l’articolo 10 comma 11 della legge 183/2011, abrogando la legge 23 novembre 1939 n. 1815, ha definitivamente rimosso il dato normativo che aveva impedito l’esercizio in forma societaria delle professioni regolamentate.

Infatti, se per un verso l’articolo 2 della legge testé citata, che vietava espressamente la costituzione di società tra professionisti, era stato abrogato nel lontano 1997 dall’articolo 24 della legge n. 266, tuttavia la assenza dei requisiti per l’esercizio della attività in forma associata, che avrebbero dovuto essere fissati da apposito decreto ministeriale mai emanato, di fatto aveva congelato gli effetti abrogativi.

La preclusione stabilita dalla legge del 1939 è oramai venuta meno (dunque può ritenersi superato l’impasse cui aveva dato luogo l’inerzia ministeriale) e non mi pare che si rinvengano nell’ordinamento altre restrizioni all’esercizio in forma societaria della professione forense.
Anche l’articolo 2247 c.c. non sarebbe problematico: i servizi professionali costituiscono senz’altro attività economica per costante giurisprudenza comunitaria, e dunque non sarebbe contraria alla legge quella società che abbia per oggetto l’esercizio in comune di una attività economica consistente nella “vendita” di servizi legali.

Semmai, l’unica disposizione che avrebbe potuto rappresentare ancora un ostacolo all’esercizio in forma societaria della professione forense sarebbe stato l’articolo 2232 c.c., che richiede la esecuzione personale dell’opera professionale: tuttavia la legge di delega ha espressamente separato il momento del conferimento dell’incarico (che è dato alla società) da quello della esecuzione (che rimane sempre riservato al socio professionista iscritto all’albo).
Neppure potrebbe rappresentare un impedimento alla costituzione di società tra avvocati la assenza di normativa di dettaglio che disciplini in concreto come debba atteggiarsi il rapporto tra cliente e società da un lato e società e socio professionista dall’altro.

L’interprete potrà colmare la lacuna ricorrendo all’articolo 24 del Dlgs 96/2001, a ciò espressamente autorizzato proprio dallo stesso articolo 5 comma 2 lett. n, a mente del quale sono applicabili alla società tra avvocati le disposizioni del decreto legislativo del 2001 in materia di esercizio della professione forense in forma societaria.

Sì alle società in un modo o nell’altro
In definitiva, a me sembra che tertium non datur e che delle due l’una: o si ritiene che l’articolo 5 della legge professionale, non avendo il Governo esercitato la delega, non sia più vincolante ed allora saranno applicabili agli avvocati le norme dettate dal legislatore per la costituzione delle società tra professionisti. Oppure si pensa che la disposizione in parola abbia ancora validità e dunque si ammette che gli avvocati possano esercitare la professione in forma societaria secondo gli schemi delle società commerciali disciplinate dal codice civile, con i correttivi previsti dai principi e criteri direttivi della legge delega.

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