Quel che si intuiva dallo scarno comunicato del Quirinale degli inizi di novembre ha trovato conferma nella lettera che il capo dello Stato Giorgio Napolitano ha inviato alla corte d’assise di Palermo. Due pagine che, da oggi, sono a disposizione delle parti del processo sulla trattativa Stato-mafia, in cui il capo dello Stato dice con chiarezza che la sua deposizione in dibattimento, sollecitata dai pm e ammessa dai giudici, non sarebbe utile. “Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di fare se davvero ne avessi da riferire”, scrive il presidente della Repubblica, escludendo di avere elementi da comunicare su quanto la Procura vorrebbe chiedergli.
Il punto ruota tutto attorno alle preoccupazioni espresse dall’ex consigliere giuridico del Colle Loris D’Ambrosio, morto due anni fa, in una lettera inviata a Napolitano il 18 giugno del 2012. Amareggiato dai veleni seguiti alla pubblicazione delle sue telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettato nell’inchiesta sulla trattativa, D’Ambrosio presentò le sue dimissioni a Napolitano con un’accorata missiva in cui negava di avere esercitato pressioni sulla gestione delle indagini. Uno sfogo in cui a un certo punto compare la frase che interessa i pm relativa a episodi del periodo 1989-1993 che preoccupavano D’Ambrosio e che l’avevano portato “a enucleare ipotesi, – scrisse – quasi preso dal timore di essere stato allora considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi”.
Parole apparentemente sibilline che si comprendono solo alla luce di quanto D’Ambrosio diceva a Mancino, nelle telefonate, sul periodo relativo alla nomina di Francesco Di Maggio, personaggio chiave nella trattativa secondo i pm, a numero due del Dap. Ma sul passaggio della lettera Napolitano non ha nulla da riferire, né – spiega – “ho ricevuto in alcun modo da D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione” sui suoi timori e sulle sue ipotesi. Il capo dello Stato precisa di non avere mai “interrogato” D’Ambrosio sul punto e di non essersi intrattenuto con lui su vicende del passato “relative ad anni nei quali non lo conoscevo ed esercitavo funzioni pubbliche del tutto estranee a qualsiasi responsabilità di elaborazione e gestione di normative antimafia”. Alla lunga premessa, che di fatto è una sorta di anticipazione di quanto avrebbe dovuto dire alla corte se sentito, Napolitano chiede ai giudici di valutare il “reale contributo” delle sue dichiarazioni.
Ma nella lettera, inviata a Palermo con il massimo della riservatezza, non si scrive mai che il presidente ritiene di non essere interrogato, valutazione che d’altronde spetta alla Corte. Ove mai si decidesse di sentire comunque il capo dello Stato ciò avverrebbe, come prevede la norma, attraverso una trasferta dei Pm al Quirinale. La lettera sarà ora visionata dalle parti. Solo con l’accordo di tutti i soggetti del processo potrà essere ammessa agli atti del dibattimento. E soltanto se finirà nel fascicolo del processo, la corte, dopo avere interpellato accusa e difese, potrà eventualmente tornare sui suoi passi e revocare la citazione del capo dello Stato. Cosa accadrebbe se, invece, i giudici ribadissero l’intenzione di sentire Napolitano è difficile da dirsi: il presidente potrebbe decidere di farsi sentire dai giudici o potrebbe proporre ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato e investire la Consulta della questione. Critici verso la lettera del capo dello Stato Forza Italia e il Prc, mentre l’ex pm Antonio Ingroia, che coordinò le indagini sulla trattativa, parla di “confusione di ruoli”. “Non tocca a chi deve essere sentito come testimone fare simili valutazioni”.