di Rosa Criscuolo
Il presidente delle Camere Penali avv. Vittorio Spigarelli ha recentemente denunciato che è ormai entrato nel lessico giudiziario il termine “abuso della custodia cautelare” e che questa espressione ormai viene utilizzata perfino da alcuni Magistrati.
Come se si fossero passati voce una parte dei Magistarti degli uffici del p.m. e del g.i.p. tendono a far durare la custodia cautelare fino ai termini massimi di custodia preventiva. E’ successo a Napoli con l’on.le Nicola Cosentino, a Taranto con gli imprenditori Emilio e Nicola Riva, sta succedendo a Salerno con monsignor Scarano, il quale come riportiamo in altra pagina del giornale versa in gravi condizioni di salute, sta succedendo di nuovo a Taranto con il presidente della provincia Gianni Florido.
Altro fenomeno perverso è la reiterazione della misura cautelare non supportata da idonea ed esauriente motivazione in una fase avanzata del procedimento quale la conclusione delle indagini preliminari. In tutti questi casi i Magistrati degli uffici del p.m. e del g.i.p,. benchè siano cessate da tempo le esigenze cautelari, (rischio di inquinamento delle prove, di fuga, o di reiterazione di reati particolarmente gravi da parte del condannato) tendono a protrarre la carcerazione fino ai termini massimi previsti dalla legge. Perché lo fanno?
Secondo taluni questa giurisprudenza utilizza la custodia cautelare in funzione di difesa sociale; cioè non perché sussistano nel caso specifico le esigenze che il codice prescrive, bensì per far scontare in anticipo quella che (potrebbe) essere la sanzione finale, nel timore che l’inefficienza del sistema ne vanifichi l’applicazione. Insomma, “pochi maledetti e subito” – come voleva il motto dei bottegai romani del secolo scorso – mesi o anni di custodia cautelare nel dubbio che la sanzione definitiva resti virtuale. Quindi la misura cautelare in carcere viene utilizzata come un anticipo della carcerazione definitiva. Poco importa a questo sterotipo di magistrato se poi a verifica dibattimentale conclusa l’imputato viene giudicato innocente!
Riccardo Arena, penalista e conduttore della trasmissione Radiocarcere su Radio Radicale, ha verificato che in Italia il 43 per cento delle persone attualmente detenute sono in attesa di giudizio.
Oggi in carcere ci sono oltre 13 mila persone in attesa di un giudizio di primo grado. Anche Arena ritiene che siccome il processo penale ha dei tempi lunghissimi, il pm che indaga e il gip che deve decidere sull’ordinanza di custodia cautelare anticipano la sanzione, sapendo che la fase dibattimentale arriverà dopo anni. La lunghezza dei processi avrebbe dunque innescato questa reazione da parte di chi opera nel settore giudiziario. Il problema se poi questi atteggiamenti vanno in barba ai nostri principi costituzionali quali i canoni del giusto processo, la presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva, la necessità di considerare la pena non già un momento afflittivo bensì un momento rieducativo del condannatoi, il concetto che la privazione della libertà deve essere un evento eccezionale e non usuale, ormai non interessa più nessuno.
Ma sono proprio queste le ragioni?
Tempo fa, appena eletto, il presidente del Senato Pietro Grasso diramò una nota a tutti i magistrati con la quale raccomandava di non eccedere in atteggiamenti eccessivamente giustizialisti perché questi, eccitando il senso di rivalsa di elettori frustrati, contribuiva a formare un consenso politico sproporzionato al movimento politico di Beppe Grillo e non andava invece in soccorso – come si voleva – di altri segmenti politici più istituzionali.
Voglio sperare che quella di Grasso sia stata una stravaganza ma se fosse questa la realtà, saremmo di fronte a un fenomeno di inaudita gravità: una sorta di scambio di favori fra segmenti del Potere Giudiziario e segmenti del Potere Politico; tu fai avere più voti a me, io lascio più fare i c…. tuoi a te.
Circa due anni fa l’allora Primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, stanco di qeusti atteggiamenti dei suoi colleghi dichiarò testualmente: «È necessario che il legislatore assuma sul serio la natura di extrema ratio della custodia in carcere… e la preveda soltanto in presenza di reati di particolare allarme sociale, e, soprattutto, la inibisca quando la condotta criminosa presa in considerazione sia risalente nel tempo e non accompagnata da manifestazioni concrete di attuale pericolosità sociale. La questione chiama ovviamente in causa anche i giudici. Il difetto endemico del nostro sistema, a causa dell’eccessiva distanza temporale tra condanna ed esecuzione della pena, comporta sovente la spinta ad anticipare, in corso di processo o di indagini, il ricorso al carcere al fine di neutralizzare una pericolosità sociale, anche se soltanto ipotizzata, al fine di offrire una risposta illusoriamente rassicurante alla percezione collettiva di insicurezza sociale, che finisce così con il contagiare l’ambito giudiziario, determinando guasti sulla cultura del processo e delle garanzie».
L’avv. Spigarelli ha osservato che se un giudice (o meglio la stragrande maggioranza dei giudici) è così sensibile alle esigenze di difesa sociale, tanto da arrivare ad una pratica che stravolge i principi costituzionali, è perché si sente istintivamente, culturalmente, giuridicamente, più vicino alle istanze di difesa sociale di cui è portatore il pm rispetto a quelle di tutela del diritto del singolo di cui è latore il difensore. E’ questo il punto su cui bisogna intervenire, ma per farlo occorre rimettere la figura del giudice al centro del triangolo ideale del processo, tra accusa e difesa. Un giudice veramente terzo, che pesa i diversi interessi, non un collega del pm nell’amministrazione della giustizia.
E quindi torna a bomba il problema delle divisioni delle carriere una soluzione ormai da decenni invocata dall’avvocatura e da decenni respinta al mittente da unba certa parte del Potere Politico, da una certa parte della Magistratuara, da una certa parte della Sinistra. Anzi da una certa parte di falsa Sinistra.
Rosa Criscuolo