L’intesa tra Stati Uniti e Unione Europea, siglata in Scozia dal presidente americano Donald Trump e dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, rappresenta un passaggio strategico nelle relazioni economiche transatlantiche. Pur lasciando invariato il regime tariffario su acciaio e alluminio, il patto prevede investimenti e scambi commerciali per un valore complessivo di oltre 1.300 miliardi di dollari.
Al termine di negoziati definiti da entrambe le parti come “complessi” e condotti lontano dai riflettori, le due potenze economiche hanno concordato un pacchetto articolato che include 600 miliardi di dollari di investimenti europei negli Stati Uniti e l’acquisto da parte dell’Unione Europea di beni energetici e armamenti statunitensi per un controvalore stimato in 750 miliardi di dollari.
“È un accordo imponente, frutto di mesi di lavoro”, ha dichiarato Trump, sottolineando la portata strategica dell’intesa. Von der Leyen ha confermato la difficoltà del negoziato, evidenziando però i risultati concreti: “Abbiamo anche concordato dazi zero per zero su una serie di prodotti strategici”. Tuttavia, su acciaio e alluminio non si registrano variazioni: gli attuali dazi restano in vigore, segnando un confine ben definito tra l’ambito dell’intesa e le tensioni commerciali ancora irrisolte.
Da Roma, la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha accolto con cautela l’accordo: “Lo considero positivo, ma senza conoscere i dettagli non sono in grado di esprimere un giudizio definitivo”. Una dichiarazione prudente, che riflette l’impossibilità per un singolo Stato membro di incidere in modo autonomo su trattative di portata intercontinentale, gestite esclusivamente a livello comunitario.
Sul piano economico, l’accordo potrebbe comportare impatti significativi per alcuni Paesi dell’Unione, in particolare in relazione ai settori più esposti a eventuali pressioni tariffarie americane. Secondo un’analisi del think tank Bruegel, l’Irlanda è il membro UE più vulnerabile, con il 13% dell’occupazione legata a comparti ad alto rischio, come chimica, agroalimentare e farmaceutica. Segue l’Italia, con un’esposizione dell’11%, trainata da settori cruciali come automotive, moda e farmaci. Germania e Francia si attestano attorno al 9%, con sensibilità differenziate in ambiti come beni industriali, lusso e produzione automobilistica.
L’assenza di una revisione dei dazi su acciaio e alluminio è indicativa delle difficoltà persistenti nel superare le barriere protezionistiche imposte in passato. Al contempo, l’ampiezza degli impegni reciproci in termini di investimenti e scambi commerciali segna un rinnovato pragmatismo nelle relazioni tra Bruxelles e Washington, in un contesto globale segnato da instabilità geopolitica e sfide energetiche.
La partita, tuttavia, resta aperta. I prossimi mesi diranno se l’accordo sarà in grado di produrre benefici condivisi e duraturi o se le fragilità strutturali delle economie europee più esposte agli umori della Casa Bianca torneranno a farsi sentire con forza.
