La montagna che cura. O che prova a farlo, tra ostacoli strutturali e nuove prospettive. È questo il tema che ha animato il terzo incontro della Dolomiti Mountain School 2025, andato in scena venerdì 13 giugno a Comeglians, nel cuore della Carnia. Un confronto ad alta quota sul futuro della sanità nei territori marginali, dove la distanza dai centri urbani, l’invecchiamento della popolazione e la carenza di risorse impongono una visione innovativa e integrata.
Tra le voci autorevoli che si sono alternate nel corso dell’incontro, quella del professor Silvio Brusaferro, docente dell’Università di Udine ed ex presidente dell’Istituto Superiore di Sanità. “La promozione della salute – ha spiegato – non parte dagli ospedali ma dalle comunità. È lì che si formano le scelte individuali, ed è lì che occorre investire per costruire benessere collettivo”.
Brusaferro ha sottolineato la necessità di creare comunità di prossimità, capaci di sostenere le persone nel quotidiano: “Aumentare l’aspettativa di vita è importante, ma lo è ancor di più vivere quegli anni in buona salute, ritardando l’insorgenza delle patologie croniche. E questo passa da uno stile di vita sano, supportato da un ambiente sociale e relazionale attento e inclusivo”.
Concetti rilanciati da Sandro Cinquetti, direttore del Dipartimento di Prevenzione dell’ULSS 1 Dolomiti, che ha portato l’esperienza della provincia di Belluno: “Nei territori montani serve un patto solido e duraturo tra istituzioni sanitarie, enti locali, volontariato e cittadini. Senza alleanze forti, nessun modello di sanità territoriale può funzionare davvero”. Un’alleanza che, però, “va costruita giorno dopo giorno, superando diffidenze e frammentazioni”.
La sanità di montagna non è solo una questione logistica, ma anche culturale. Lo ha ricordato il medico Paolo Pischiutti, esperto in Medicina del Lavoro e Igiene pubblica: “Siamo di fronte a una duplice crisi. Da un lato, l’eccesso di medicalizzazione – esami inutili, farmaci prescritti con leggerezza – porta a sprechi e a un sistema ingolfato. Dall’altro, chi vive in montagna sperimenta la distanza fisica dai servizi, con tempi di attesa e spostamenti spesso insostenibili”. La soluzione? Una sanità più sobria, appropriata, e soprattutto più vicina.
Prossimità che oggi può essere rafforzata dalla tecnologia, come ha spiegato Anna Zilli, docente di Diritto del Lavoro all’Università di Udine: “Telemedicina e smart working possono diventare leve formidabili per restituire centralità ai territori periferici. Ma serve una visione politica che sappia coglierne il potenziale, evitando che le innovazioni restino confinate alle sperimentazioni”.
Nel contesto montano, la cura degli anziani rappresenta una delle sfide più urgenti. In Friuli Venezia Giulia, oltre il 26% della popolazione ha più di 65 anni, e quasi il 9% supera gli 80. A delineare un possibile modello d’intervento è stata la dottoressa Gabriella Donnini, responsabile della geriatria territoriale dell’Azienda Sanitaria Universitaria Friuli Centrale: “La risposta non può essere ospedalocentrica. Serve una presa in carico domiciliare, multidisciplinare e personalizzata. La geriatria territoriale nasce proprio per questo: curare la persona nel suo contesto, riducendo accessi inutili ai pronto soccorso e garantendo una qualità della vita dignitosa e completa”.
Il filo rosso dell’incontro di Comeglians è stato chiaro: la salute in montagna è una questione di giustizia territoriale. Non si tratta solo di portare i servizi in quota, ma di riconoscere il valore delle comunità montane e costruire attorno a esse un modello sanitario nuovo, radicato, condiviso. Un modello che non si limiti a curare, ma che sappia promuovere salute e benessere a partire dai luoghi, dalle relazioni, dalle persone.