A cura di Daniele Cappa
Il prezzo del gasolio che si avvicina — e in molti casi supera — quello della benzina. Un traguardo per qualcuno, un passo avanti sul piano ambientale per altri. Eppure, dietro questo “allineamento” dei carburanti si cela una dinamica ben più complessa, che rischia di trasformarsi in un colpo silenzioso ma durissimo per l’economia reale.
Nel gioco degli equilibri fiscali e delle accise, l’adeguamento del prezzo del diesel può anche apparire come una misura corretta, persino equa. Ma guardando oltre il distributore, l’effetto domino è evidente: aumento dei costi di trasporto, pressione sui margini delle imprese, rincari a cascata su beni e servizi, a partire dai generi alimentari.
Dietro il gasolio, l’Italia che lavora (e che trasporta)
Il diesel non è solo il carburante di milioni di auto private. È, soprattutto, la spina dorsale della logistica italiana: camion, furgoni refrigerati, trattori, mezzi per le consegne dell’e-commerce e dell’agroalimentare. È il motore — letteralmente — che permette ai prodotti di muoversi dal produttore al consumatore.
In Italia, oltre l’80% delle merci viaggia su gomma. Ogni centesimo in più alla pompa si moltiplica lungo la filiera: trasporto, distribuzione, conservazione. E si riflette direttamente sugli scaffali dei supermercati, nel costo di una confezione di pasta, di frutta, di carne. Ma anche in quello di un mobile spedito, di un pacco consegnato o di un intervento tecnico a domicilio.
Un rincaro che va dritto nel carrello
È dunque un errore pensare che il caro gasolio riguardi solo chi guida un SUV diesel. Il vero impatto è collettivo. Le imprese non hanno margini per assorbire l’aumento dei costi e, nella maggior parte dei casi, trasferiscono la differenza sui prezzi finali. A pagare, come sempre, è il consumatore.
Tutto questo avviene in un contesto in cui l’inflazione, pur rallentata, continua a colpire in modo sensibile i beni primari e i servizi essenziali. Il rischio concreto è che una misura pensata per correggere una distorsione finisca per inasprire il costo della vita, erodere il potere d’acquisto delle famiglie e colpire in particolare le fasce più deboli.
A rendere il quadro ancora più contraddittorio è il fatto che, da tempo, l’esecutivo ha promesso di rivedere profondamente il sistema delle accise, eliminando quelle considerate ormai obsolete: dai balzelli introdotti per la guerra in Abissinia a quelli per il terremoto del Belice. Ma le accise “storiche” sono ancora lì, a pesare su ogni litro, mentre si procede invece ad aumentare la pressione su un carburante strategico come il diesel.
Una transizione ecologica senza paracadute
L’adeguamento delle accise ha una sua logica. Penalizzare il diesel — più inquinante della benzina — rientra negli obiettivi di sostenibilità. Ma una transizione energetica efficace non può fondarsi su rincari unilaterali. Serve un piano strutturale, che preveda incentivi concreti per la conversione ecologica delle flotte commerciali, sostegno alla logistica sostenibile, investimenti nella mobilità a basse emissioni.
Senza strumenti di accompagnamento, l’aumento del gasolio non è una misura verde: è una tassa indiretta mascherata. Colpisce chi non ha alternative: agricoltori, trasportatori, piccole imprese. E, a cascata, milioni di consumatori.
Una scelta che va guardata con lucidità
Nel dibattito pubblico si tende spesso a semplificare, a celebrare simbolicamente certi cambiamenti. Ma la realtà è più sfaccettata. L’allineamento tra diesel e benzina non è di per sé una cattiva notizia — a patto che non venga lasciato isolato, come unico strumento per guidare la transizione.
In caso contrario, il rischio è evidente: pagheremo meno disparità fiscale alla pompa, ma di più su ogni scontrino.