A cura di Giuseppe Catapano
I referendum che si terrà tra pochi giorni riguarda uno dei cardini del sistema democratico: la giustizia. Si voterà domenica 12 giugno, dalle 7 alle 23. Gli italiani sono chiamati a esprimersi su cinque diversi quesiti referendari, che chiedono di abrogare – cioè eliminare – altrettante leggi. Ovviamente, è possibile scegliere di votare anche per uno solo dei quesiti.
In generale, bisogna votare “sì” se si vuole cambiare la legge attuale, oppure votare “no” se si vuole mantenere l’assetto corrente. Per essere valido, ogni quesito dovrà raggiungere il quorum, cioè la maggioranza degli aventi diritto in Italia. Tutti i quesiti si possono leggere, per estero, a questo link.
Vediamo ora quali sono i cinque quesiti e le varie posizioni, in ordine.
Primo quesito: incandidabilità per i politici condannati
In Italia, chi è condannato in via definitiva per alcuni gravi reati penali non può candidarsi alle elezioni, né assumere cariche pubbliche e, se è già stato eletto, decade. Coloro che sono eletti in un ente locale, come i sindaci, sono invece automaticamente sospesi dopo la sentenza di primo grado (quindi non in via definitiva, dato che nel nostro ordinamento sono garantiti tre gradi di giudizio).
Se vince il “sì”, sia l’incandidabilità per i condannati in via definitiva, sia la sospensione per gli eletti in enti locali, non saranno più automatiche ma saranno decise da un giudice caso per caso.
Chi è per il “sì” sostiene che la legge penalizza gli amministratori locali che vengono sospesi senza condanna definitiva, esponendoli alla pubblica condanna anche nel caso in cui si rivelino poi innocenti.
Chi è per il “no” sottolinea che se questa legge verrà abolita, i parlamentari, i sindaci e gli amministratori condannati per mafia, corruzione, concussione o peculato potranno tornare a candidarsi e a ricoprire cariche pubbliche.
Se vuoi eliminare l’incandidabilità e l’incompatibilità per i politici condannati vota “sì”, altrimenti vota “no”.
Secondo quesito: limitazione delle misure cautelari
Le misure cautelari sono provvedimenti – decisi da un giudice – che limitano la libertà di una persona sotto indagine (quindi non ancora condannata). Alcuni esempi sono la custodia cautelare in carcere, gli arresti domiciliari o il divieto di espatrio. Oggi, può essere applicata solo in tre casi: se c’è il pericolo che la persona fugga, che alteri le prove oppure che continui a ripetere il reato.
Se vince il “sì”, viene eliminata la ripetizione del reato dalle motivazioni per disporre misure cautelari. Rimangono il pericolo di fuga e di alterazione delle prove.
Chi è per il “sì” sostiene che oggi vi sia un abuso delle custodie cautelari e si mettano spesso in carcere persone non condannate, in violazione del principio della presunzione di innocenza. La ripetizione del reato è infatti la motivazione più frequente per disporre una custodia cautelare. Negli ultimi trent’anni, circa 30 mila persone sono state incarcerate e poi giudicate innocenti e ancora oggi un terzo dei detenuti è in carcere perché sottoposto a custodia cautelare.
Chi è per il “no” sostiene che se cambia la legge sarà molto difficile applicare misure cautelari a persone indagate per gravi reati, come corruzione, stalking, estorsioni, rapine e furti. Inoltre, non ci sarebbe alcuna garanzia di non mettere in carcere persone innocenti, poiché le altre motivazioni rimangono applicabili.
Se vuoi eliminare l’applicabilità delle misure cautelari in caso di ripetizione del reato vota “sì”, altrimenti vota “no”.
Terzo quesito: separazione delle carriere nella giustizia
Nel corso della loro vita, i magistrati italiani possono passare più volte dal ruolo di pubblici ministeri (cioè coloro che si occupano delle indagini insieme alle forze dell’ordine e svolgono la parte dell’accusa) al ruolo di giudici (cioè coloro che emettono le sentenze sulla base delle prove raccolte e del contradditorio tra l’accusa e la difesa).
Se vince il “sì” i magistrati dovranno scegliere, all’inizio della loro carriera, se svolgere il ruolo di giudici oppure di pubblici ministeri, per poi mantenere quel ruolo per tutta la vita.
Chi è per il “sì” sostiene che separare le carriere garantirebbe una maggiore imparzialità dei giudici, perché così sarebbero slegati per attitudini e approccio dalla funzione punitiva della giustizia che appartiene ai pubblici ministeri. In altre parole, il fatto che una persona che per qualche anno si abitui ad “accusare” e poi venga messa nella posizione di “giudicare”, non sarebbe una condizione ideale per il sistema democratico.
Chi è per il “no” sostiene che la separazione delle carriere non sarà comunque efficace dato che la formazione, il concorso per accedere alla magistratura e gli organi di autogoverno dei magistrati resterebbero in comune. Inoltre, c’è chi teme che in questo modo i pubblici ministeri sarebbero sottoposti a un maggiore controllo da parte del Governo, finendo per diventare una sorta di “avvocati” della maggioranza che controlla l’esecutivo.
Se vuoi che le carriere dei magistrati – giudici e pubblici ministeri – siano separate vota “sì”, altrimenti vota “no”.
Quarto quesito: elezione del Consiglio superiore della magistratura
Il Consiglio superiore della magistratura è l’organo di autogoverno della magistratura, con lo scopo di mantenerla indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato. È composto da 24 membri, eletti per un terzo dal Parlamento e per due terzi dai magistrati. Oggi, per candidarsi, è necessario presentare almeno 25 firme di altri magistrati a proprio sostegno. Queste firme, oggi, sono spesso fornite col supporto delle varie correnti politiche interne alla magistratura.
Se vince il “sì” non sarà più necessario l’obbligo di trovare queste firme, ma basterà presentare la propria candidatura.
Chi è per il “sì” sostiene che in questo modo i magistrati potrebbero sganciarsi dall’obbligo di trovare accordi politici e dal sistema delle correnti, così da premiare il merito piuttosto che l’adesione politica. Si limiterebbe anche la lottizzazione delle nomine, cioè la spartizione delle cariche tra i diversi orientamenti politici.
Chi è per il “no” afferma che la riforma non eliminerebbe il potere delle correnti poiché interviene in modo poco rilevante. Ma c’è anche chi non vede le correnti come un sistema negativo in sé, in quanto aggregazioni di persone che condividono ideali e principi comuni.
Se vuoi eliminare l’obbligo di trovare 25 firme per candidarsi al Consiglio superiore della magistratura vota “sì”, altrimenti vota “no”.
Quinto quesito: valutazione dei magistrati
In Italia, i magistrati vengono valutati ogni quattro anni sulla base di pareri motivati, ma non vincolanti, dagli organi che compongono il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio direttivo della Corte di Cassazione. In questi organi, insieme ai magistrati, ci sono anche avvocati e professori universitari, ma soltanto i magistrati possono votare nelle valutazioni professionali degli altri magistrati.
Se vince il “sì” anche avvocati e professori universitari avrebbero il diritto di votare sull’operato dei magistrati.
Chi è per il “sì” sostiene che questa riforma renderebbe la magistratura meno autoreferenziale e la valutazione dei magistrati più oggettiva.
Chi è per il “no” è convinto che non sia opportuno dare agli avvocati il ruolo di valutare i magistrati, dato che nei processi i pubblici ministeri rappresentano la controparte degli avvocati. Le valutazioni potrebbero, per questo motivo, essere pregiudizievoli e ostili. Allo stesso modo, i magistrati potrebbero essere influenzati dal trovarsi di fronte a un avvocato coinvolto nella sua valutazione professionale.
Se vuoi che anche gli avvocati e i professori universitari possano valutare i magistrati vota “sì”, altrimenti vota “no”.