19 Marzo 2024, martedì
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Draghi e le riforme per il futuro

A cura di Giuseppe Catapano 

L’ipocrisia fa parte della vita, e di quella politica a maggior ragione. Ma a tutto c’è un limite. Questo, per esempio, è stato superato dai partiti nelle loro reazioni, tra parole sbagliate e silenzi di troppo, alla recente esternazione del presidente Mattarella, dichiaratosi vecchio e stanco e quindi desideroso, tra otto mesi, di potersi godere un meritato riposo. Chiaro che il Capo dello Stato si riferiva al chiacchiericcio, ultimamente fattosi assordante, circa le sue intenzioni a fine mandato. Come era prevedibile, l’esternazione quirinalizia anziché mettere fine ad una discussione prematura – basti pensare che mancano oltre due mesi all’inizio del “semestre bianco” – ha finito col moltiplicare le illazioni sul Colle. Inelegantemente, due dei tre partiti di centrodestra, paradossalmente uno in maggioranza (Lega) e l’altro all’opposizione (FdI), hanno detto senza mezzi termini che vorrebbero Draghi al Quirinale a gennaio prossimo, omettendo però di chiarire – per ipocrisia, appunto – che così sarebbe più facile, anzi quasi inevitabile, sciogliere le Camere e andare al voto. Nella presunzione di vincerle, ovviamente.

Altri, Pd e 5stelle in primis, sostengono che sarebbe opportuno che il presidente del Consiglio rimanesse a Palazzo Chigi fino alla fine della legislatura, che termina nella primavera del 2023, dando priorità alle riforme e al rilancio dell’economia, attraverso la gestione del Recovery Plan. Ma il vero motivo è che hanno davanti sondaggi disastrosi e temono le urne, così come tutti i parlamentari vedono le elezioni anticipate come fumo negli occhi perchè interromperebbe anzitempo un’esperienza che per molti di loro si annuncia irripetibile, cui si aggiungerebbe uno sgradevole danno al vitalizio.

Ora, è chiaro che per succedere a Mattarella, Mario Draghi sarebbe il candidato naturale, per autorevolezza e standing internazionale. Ma l’ex presidente della Bce è in qualche modo “prigioniero” del suo ruolo: Bruxelles e tutte le cancellerie europee, come anche la maggioranza degli italiani (secondo i sondaggi), vogliono che finisca il lavoro iniziato e non certo che l’uscita (definitiva?) dalla pandemia coincida con una sanguinosa campagna elettorale. Anzi, c’è chi pensa che debba anche andare oltre, considerato che l’arco di valenza del Pnrr arriva fino al 2026. Molto dipenderà da quale sarà lo stato di salute del Paese all’inizio dell’anno prossimo, quando sarà corretto e doveroso aprire il dossier Quirinale. Ma ho motivo di ritenere che Draghi senta il peso della responsabilità di cui si è caricato e nello stesso tempo il desiderio di lasciare un’impronta forte e duratura sul destino dell’Italia. Dunque, è altamente probabile che rimanga al suo posto.

In quel caso si aprirebbe la discussione se sia più opportuno chiedere all’attuale Capo dello Stato di fare il sacrificio di un secondo mandato, che ragionevolmente verrebbe a chiudersi appunto con le elezioni del 2023 – pur non essendo contemplato un mandato a scadenza – o se invece si debba pescare nel mazzo dei tanti papabili e degli innumerevoli aspiranti tali. Considerato che quell’esternazione faceva seguito ad un’altra di un paio di giorni prima da cui traspariva irritazione verso i partiti dediti ogni giorno ad alimentare una rissa che inevitabilmente sega il ramo su cui è poggiato Draghi e il suo governo, si potrebbe pensare che le espressioni del Presidente siano tombali. In realtà, servivano soprattutto a fermare il tritacarne del “toto Quirinale”. Dunque, non è detto che se, quando sarà il momento, gli giungesse una richiesta corale e unanime di restare, non si tirerebbe indietro. In fondo anche Napolitano, a suo tempo, fece fare dall’ufficio stampa del Quirinale una nota che recitava “Non è ipotizzabile un mio secondo mandato”. Era il 21 febbraio 2013. Due mesi dopo, il 20 aprile – al sesto scrutinio, dopo l’odissea dei “franchi tiratori” che avevano impallinato Marini e Prodi – si ebbe la sua rielezione, segnando un caso unico (per ora) nella storia repubblicana.

Ma se è proprio quella situazione di allora, che Napolitano definì “un momento terribile”, che l’attuale inquilino del Quirinale intende evitare, a se stesso e al Paese, allora occorre interrogarsi su come ci si possa assicurare la continuità di Mattarella, e parallelamente di Draghi al governo, senza ripetere quella brutta esperienza. Ci soccorre l’idea della creazione di una Commissione Costituente che l’ex presidente del Senato Marcello Pera ha lanciato .Una proposta, rivolta alle forze politiche e ai gruppi parlamentari tutti, che per quello che vale personalmente sposo in pieno. Infatti, parallelamente al problema di come dare continuità alla svolta rappresentata dal governo Draghi – il cui compito è indubbiamente di salvezza nazionale e il cui eventuale fallimento (si facciano i debiti scongiuri) sarebbe esiziale per noi (e forse anche per l’integrazione dell’Europa) – corre un altro problema, di tipo sistemico. Di fronte allo sgretolamento del sistema politico e dei partiti, di fronte alle lesioni sempre più evidenti e pericolose inferte alla nostra architettura istituzionale, è urgente mettere mano alla Costituzione. Anche perché, o l’esperienza Draghi viene supportata e completata da un cambiamento delle regole del gioco e delle istituzioni, oppure rimarrà fine a se stessa, con tutto quello che può drammaticamente significare.

E allora ecco il cambio di scenario: prima ancora del Quirinale dobbiamo occuparci di una seria e organica riforma della Carta Costituzionale. Subordinando la prima esigenza alla seconda. Qui cade a fagiolo la proposta di Pera, che mi permetto di integrare: far votare una legge costituzionale che istituisca una Commissione di 75 membri (non parlamentari né membri del governo in carica), eletti con il sistema proporzionale puro in liste da presentare in un collegio unico nazionale, cui viene delegata la revisione della Costituzione avendo un anno di tempo (non derogabile) per portare a termine il compito, lavorando in parallelo a governo e parlamento senza alcuna interferenza reciproca.

 Da qui alla fine della legislatura mancano circa 22 mesi: se fate la somma tra il tempo che occorre per votare in doppia lettura la legge costituzionale che costituisce la Commissione, il voto popolare per eleggerla, i 12 mesi di lavoro e la convocazione del referendum confermativo, vedrete che ci siamo. Giusti giusti, ma andremo a votare in sequenza la nuova Carta e il nuovo Parlamento (tra l’altro ridotto di un terzo dei suoi membri) nella primavera del 2023. Certo, per farcela occorre partire subito, approfittando anche del fatto che tra poco il semestre bianco taglierà comunque le unghie a chiunque abbia intenzione di dare zampate al governo. Per far questo occorrono due condizioni. La prima è che i partiti capiscano che è nel loro interesse, oltre che in quello del Paese, darsi un assetto istituzionale e un sistema politico che diano migliore rappresentanza ad un parlamento cui occorre assicurare di poter funzionare davvero, e nello stesso una più solida e continuativa governabilità, trasformando il presidente del Consiglio in premier o in cancelliere, e che quindi lancino la proposta con forza nel Paese – finalmente si smetterebbe di parlare di asinerie o nel migliore dei casi di cose inutili – e garantiscano in parlamento la maggioranza qualificata che è prevista per l’approvazione di una norma costituzionale. La seconda condizione è che le bocce stiano ferme fino al compimento di questo percorso, che coincide con la fine della legislatura: Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Quirinale. Poi se per ottenere quest’ultima cosa sia meglio votare un nuovo mandato a Mattarella – rigorosamente al primo scrutinio – o inserire nella stessa legge istitutiva della Commissione Costituente una norma che proroga l’attuale settennato per il tempo necessario ad arrivare al 2023, è da valutare con lo stesso Presidente della Repubblica. Ma poco importa. La cosa davvero importante è che così facendo alla fine di questo percorso virtuoso ci troveremo una Costituzione finalmente rinnovata, un nuovo Parlamento che eleggerà un nuovo Capo dello Stato , e un nuovo Governo presieduto da una nuova figura e sorretto da una maggioranza che dovrebbe prospettarsi stabile.

Ci pensi prima di tutto Enrico Letta, togliendo il Pd dall’attuale imbarazzo di aspettare Godot (l’avvocato Conte) e di passare il tempo in inutili tenzoni con Salvini. Ci pensi il capo della Lega, che perde ogni giorno che passa consensi mentre deve ancorare la sua presunta metamorfosi politica in qualcosa di davvero solido e convincente. Ci pensino quelli di Forza Italia, che devono emendarsi dal peccato di aver fatto a suo tempo una riforma costituzionale che meritò di essere bocciata, ma soprattutto che devono dimostrare di poter andare oltre i bollettini medici riguardanti la salute di Berlusconi. E ci pensi sopra anche la Meloni, riflettendo sul fatto che rischia di ritrovarsi con tanti voti e non poterli spendere. Se tutti questi si parlassero, alla fine ci starebbero anche i 5stelle, non fosse altro perché questo percorso garantirebbe ai loro attuali parlamentari di arrivare fino all’ultimo giorno del mandato. È chiaro che se le cose fossero messe in questo modo non solo Mattarella non potrebbe sottrarsi, ma lo farebbe con entusiasmo. Sognare non costa nulla.

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