24 Aprile 2024, mercoledì
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IMMOBILISMO DEL GOVERNO

|a cura del Prof. Avv. Giuseppe Catapano

Torna  ad incombere un pericolo sanitario di tipo pandemico, e allora al prolungamento dello stato di emergenza occorre abbinare la richiesta all’Europa dei fondi MES – la cui condizionalità riguarda l’ambito in cui vanno spesi, appunto la sanità – oppure se quel pericolo non è tale da indurci a fronteggiarlo con risorse ad hoc, ma solo con misure di tipo comportamentale, l’estensione al 31 gennaio dello “stato d’eccezione”, in base al quale alcune delle libertà fondamentali previste dallo “stato di diritto” possono essere limitate, è del tutto fuori luogo. 

 Di questo avrebbe dovuto avere coscienza il presidente Conte, che pure qualche nozione di diritto è presumibile che conosca, quando ha ritenuto ci fosse la “straordinaria necessità e urgenza” per prorogare di altri 4 mesi i termini dell’emergenza stabilita con i vari Dpcm che da marzo in poi si sono susseguiti.

Qui non si tratta di gridare denunciando uno stato di alterazione della democrazia, che pure è un pericolo reale quando ci si addentra per un periodo non breve nello “stato d’eccezione” – urla che, paradossalmente, arrivano anche da chi nel centrodestra ha aggiunto le proprie smanie sovraniste alle idiosincrasie grilline contro il MES, come se fosse uno strumento di distruzione della sovranità nazionale – ma di ricondurre lo stato di emergenza a scelte strutturali capaci di fronteggiare oggi e prevenire domani l’esistenza di pericoli pandemici gravi. Senza le quali la sospensione del normale “stato di diritto” non ha alcuna giustificazione. La verità che è tanto l’emergenza quanto la mancata contestuale attivazione del MES sono due facce della stessa medaglia politica, che è la scelta di decidere di non decidere. Un alibi perfetto per poter praticare l’immobilismo e metterlo al riparo dalle critiche. Lo stesso principio di galleggiamento politico per cui – salvo un blocco mondiale generalizzato – si eviterà un nuovo lockdown, che scatenerebbe forti reazioni popolari, cercando di ottenerne gli effetti con una serie di singoli provvedimenti restrittivi, ma senza prendersi la responsabilità di dichiarare il “fermi tutti”.

Eppure, le ragioni per affrontare di petto i limiti del nostro sistema sanitario ci sarebbero tutti. Da un lato, il Coronavirus che, allargando il fronte dei contagiati, può legittimamente far temere che il sistema ospedaliero rischi di andare di nuovo in sofferenza come nella primavera scorsa. Senza contare che mancano le dotazioni di base, come i reagenti per i tamponi, i vaccini per l’influenza di stagione, così come sono mancati gli strumenti per adeguare le strutture scolastiche alle nuove esigenze imposte dal virus. Poi ci sono ci sono tutte le altre malattie, colpevolmente passate in secondo piano da quando esiste il Covid: in questi mesi non sono state effettuate 46,5 milioni di prestazioni tra visite specialistiche, esami diagnostici e controlli, e si sono contati circa 600 mila mancati ricoveri, che spesso si sono rivelati mortali. Dunque, le patologie non Covid debbono tornare al centro dell’attenzione. E per affrontarle con maggiore efficacia occorre investire di più in ricerca e in strutture adeguate, considerato che nell’ultimo decennio gli investimenti nel settore sono stati pressoché azzerati, mentre abbiamo tagliato il personale (45 mila unità, di cui 7 mila medici), i posti letto ospedalieri (quasi 40 mila), il numero di Asl e i posti di responsabilità. Nell’insieme risparmiando solo 1 miliardo. Non è un caso che le Regioni che hanno pagato il prezzo più alto all’emergenza Covid sono quelle che avevano scelto di concentrare tutte le risorse nelle grosse strutture ospedaliere, affidando alla gestione dei privati lo sviluppo di centri di eccellenza. Con ciò penalizzando l’assistenza sul territorio, dalla rete dei medici alle cure domiciliari.

Infine, c’è un sistema sanitario che dal 2001, con la sciagurata revisione del Titolo V della Costituzione, si chiama nazionale ma che tale non è, perché è composto da 20 realtà regionali l’una diversa dall’altra. Cosa che ha complicato i processi decisionali, moltiplicato le procedure, fatto sorgere fenomeni distorsivi come il “turismo sanitario”, favorito i “costi non standard” e lasciato spazio a gestioni clientelari delle Asl, tanto che, non a caso, ci sono stati molti commissariamenti. Inoltre, 20 sistemi diversi hanno prodotto una disomogeneità di trattamento dei cittadini che è un sonoro schiaffo in faccia ai diritti costituzionali. Il sistema sanitario, quindi, prima ancora che revisionato sul piano delle strutture e dei servizi, abbisogna urgentemente di essere riportato a unità. Senza paura di essere tacciati di neo-centralismo. Anche perché la centralizzazione degli acquisti sanitari introdotta nel 2016, seppure su base regionale, ci ha fatto risparmiare quasi 4 miliardi a parità di servizi, e questo dimostra che il meccanismo di concentrazione della spesa non è una pruderie centralistica ma una necessità funzionale.  D’altra parte, il fallimento del federalismo fin qui realizzato ha portato il paese alla consapevolezza che l’Italia non si può permettere un’architettura del decentramento amministrativo che somma 20 Regioni, un centinaio di Province (già, sono rimaste in piedi) e oltre 8mila Comuni, senza contare le varie istituzioni di grado inferiore. E dentro questa consapevolezza c’è quella di un sostanziale fallimento del regionalismo a 50 anni dalla sua nascita. E siccome il principale compito e la maggiore voce di spesa delle Regioni è proprio la sanità, sarebbe ora di affrontare i due temi insieme, con una riforma complessiva che semplifichi il sistema amministrativo – e qui io mi sono andato convincendo che le Regioni vanno abolite, rispristinando al loro posto le Province (di numero ridotto, non oltre 50), oltre all’accorpamento dei Comuni sotto i 5mila abitanti (i due terzi del totale) – e riveda la governance del sistema sanitario sia riportandone la responsabilità in capo allo Stato, salvo alcuni compiti operativi decentrati, sia gestendolo con una forma mutualistico-assicurativa moderna, prendendo come modello il sistema olandese.

Tutto questo, però, abbisogna di ingenti risorse. Più o meno i 37 miliardi che ci potrebbero arrivare dal MES. Ecco perché un Paese serio avrebbe già aderito, non senza aver redatto un progetto di grande respiro che giustifichi all’accesso a quei soldi visto che, è bene ricordarlo, sarebbero comunque debito da ripagare, anche se a lungo termini e a costo quasi zero. È una tesi, questa, che ho sentito con piacere essere accolta dalla sottosegretaria alla Sanità, la piddina Sandra Zampa, che nel corso di una puntata di War Room non solo ha detto che non ci sono più scuse per dire no al MES, ma anche aperto ad una revisione della governance del sistema sanitario, consapevole che per migliorarlo e renderlo all’altezza delle sfide che incombono sulle nostre vite non basta investire negli edifici e nelle strutture mediche, ma occorre ridisegnare l’intera architettura del sistema sanitario in una riforma che tocchi anche il welfare e persino l’ordinamento istituzionale. Insomma, riforme vere, strutturali, strategiche, non liste della spesa.

 Perché non è un caso il governo è  carico di contraddizioni che nessuno ha la voglia e la forza di affrontare, ad essere il primo impedimento sulla strada di quel tipo di riforme. Se così non fosse si sarebbe già attivato il MES, alzando la voce quel tanto che basta per zittire le banalità di chi ha deciso che essere contro fa parte del suo dna politico (chissà poi perché), e si sarebbe già avviato un lavoro di preparazione delle riforme da fare. Invece sono – siamo – prigionieri della micidiale trimurti degli ismi: “presentismo-continuismo-fatalismo”. E così il MES rimane un tabù, prigioniero dell’alleanza trasversale populista che attraverso governo e opposizione che tanto fa comodo a Conte e al suo immobilismo perché gli assicura una rendita di posizione in Italia e in Europa. Mentre non è un tabù continuare a sostituire lo “stato di diritto” con lo “stato d’eccezione”.

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