24 Aprile 2024, mercoledì
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Quarant’anni fa la strage alla stazione di Bologna

È anche una storia di ragazzi del secolo scorso, la strage di Bologna avvenuta quarant’anni fa, quando alle 10,25 del 2 agosto 1980 una bomba fece esplodere la stazione centrale.

Giovani o giovanissime molte delle vittime, così come gli assassini condannati. Tra i morti, Angela Fresu stava per compiere 3 anni, sua madre Maria — contadina della provincia di Sassari — ne aveva festeggiati 24 a febbraio. Sonia Burri aveva 7 anni, sua sorella Patrizia 18; venivano da Bari. Roberto Gaiola, vicentino, era uno studente di 14 anni come il tedesco Eckhard Mader (il fratello Kai ne aveva 8). Antonella Ceci, diciannovenne di Rimini, era fidanzata con Leoluca Marino, operaio, 24 anni, siciliano come le sorelle Domenica Angelina, 26 e 23 anni.

Delle 85 persone dilaniate dalla bomba (ma forse furono 86, come vedremo), circa la metà non aveva trent’anni. Giovani vite che transitavano per caso da quei binari, spezzate da altrettanto giovani attentatori che avevano imbracciato le armi per scelta politica e ribelle, stando alla sentenza che ha individuato tre colpevoli: Valerio Fioravanti, 22 anni all’epoca; Francesca Mambro, 21; Luigi Ciavardini, nemmeno 18: è stato processato a parte, dal tribunale dei minorenni. Terroristi-ragazzini che sotto la sigla neofascista dei Nuclei armati rivoluzionari hanno commesso e rivendicato omicidi di poliziotti, carabinieri, magistrati, avversari politici e «camerati» accusati di tradimento, ma per la strage si proclamano innocentiNonostante le condanne ormai definitive.

Un quarto esecutore materiale è ancora presunto, si chiama Gilberto Cavallini, altro estremista nero dell’epoca: il 2 agosto ’80 non aveva ancora compiuto 28 anni, ma per lui la giustizia è andata molto a rilento e la condanna di primo grado è arrivata solo a gennaio del 2020.

Un quinto ipotetico attentatore, già inquisito e prosciolto ma ora nuovamente imputato, di anni ne aveva 27: Paolo Bellini, neofascista pure lui ma di un’altra banda, Avanguardia nazionale; gli inquirenti ne hanno appena chiesto il rinvio a giudizio, e chissà quando arriverà – se ci sarà un processo – la prima sentenza.

Dall’esplosione è passato talmente tanto tempo che i primi condannati (Mambro e Fioravanti) hanno interamente scontato la pena e sono tornati liberi cittadini.
In Italia si può, anche con più di un ergastolo sulle spalle.

Per altri sospettati, invece, i giudizi sono alle battute iniziali, o devono ancora cominciare. Un paradosso, reso più stridente dal fatto che i presunti mandanti, organizzatori o complici della strage, individuati al termine di un’indagine che s’è conclusa all’inizio di quest’anno, sono tutti morti.

Si tratta di nomi che hanno riempito le cronache nere, politiche e giudiziarie del XX secolo, ma di un’altra generazione rispetto agli esecutori. Potevano essere i loro padri, addirittura nonni. Licio Gelli, classe 1919, scomparso nel 2015; Umberto Ortolani, (1913-2002); Federico Umberto D’Amato (1991-1996); Mario Tedeschi (1924-1993).

Erano tutti iscritti alla Loggia massonica P2, un’associazione segreta ispirata all’oltranzismo filo-atlantico e anticomunista che nel dopoguerra italiano e in piena «guerra fredda» tra Est e Ovest s’è servita anche di trame occulte e metodi poco ortodossi per impedire che il Partito comunista italiano si avvicinasse alle stanze del potere.

Gelli della P2 era il capo, e avrebbe foraggiato gli stragisti con movimenti bancari dall’estero verso l’Italia; l’imprenditore Ortolani, uno dei maggiori finanziatori della Loggia segreta, lo avrebbe aiutato nell’impresa; Federico Umberto D’Amato era un funzionario di polizia giunto alla guida dell’Ufficio Affari riservato del ministero dell’Interno (una sorta di servizio segreto parallelo dell’epoca), fatto fuori nel ’74 ma sempre in attività al fianco di Gelli, secondo l’accusa; Mario Tedeschi, parlamentare del Movimento sociale italiano (il partito nato nell’Italia repubblicana dalle ceneri del fascismo) lo avrebbe aiutato attraverso gli articoli sulla rivista «Il Borghese», di cui era direttore.

In vita, Gelli ha fatto in tempo a essere condannato per un altro depistaggio, sempre legato alla strage di Bologna, insieme agli ufficiali del servizio segreto militare Pietro Musumeci (pure lui affiliato alla P2) e Giuseppe Belmonte, e al «faccendiere» Francesco Pazienza.

Anche un altro «ragazzo nero» dell’epoca, Massimo Carminati, che dall’estrema destra ha traslocato armi e bagagli nella criminalità comune, fino ad essere accusato di essere il capo di «Mafia Capitale» (che alla fine non s’è rivelata mafia, bensì un’associazione per delinquere dedita alla corruzione e altri reati), fu processato ma assolto per aver contribuito a quel depistaggio.

Se l’ultima ricostruzione degli inquirenti venisse confermata, saremmo di fronte a una banda di ragazzi e ragazzini protagonisti della contrapposizione politica violenta dell’epoca (rossi contri neri, a suon assalti, ferimenti e omicidi) utilizzati come pedine; marionette mosse da burattinai che ricorrevano alle bombe per impaurire il Paese e tenerlo sotto pressione.

Com’era avvenuto in passato, quando la «strategia della tensione» si dispiegò dalla strage di piazza Fontana (12 dicembre 1969) a quella dell’Italicus (4 agosto 1974), passando per altre esplosioni assassine come a Peteano (31 maggio 1972), Milano (17 maggio 1973) e Brescia (28 maggio 1974)

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