18 Aprile 2024, giovedì
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L’esercito di terracotta di Baghdad

Sorpresa e sconcerto hanno colto quanti hanno osservato poche migliaia di jihadisti dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isil, o secondo altro acronimo Isis) intenti a occupare, con successo, Mosul, la seconda città dell’Iraq, e avanzare quasi indisturbate verso sud – lungo la valle del Tigri – fino a poche decine di chilometri da Baghdad.

Eppure, nelle province settentrionali dell’Iraq la consistenza di forze governative era ragguardevole. Si tratta comunque di tre divisioni dell’Esercito e una della Polizia federale, per un totale, a seconda del livello di completamento delle Unità, che oscilla tra i 30 mila e i 50 mila effettivi. Dove sono spariti? Perché non hanno reagito, o lo hanno fatto così poco e male?

Nessuna sorpresa ha colto invece coloro che seguono e valutano – inserendolo in un corretto contesto – ogni evento dell’area: siamo pur sempre in Medio Oriente, dove le logiche comuni e le usuali unità di misura hanno un significato molto relativo.

Dipende tutto dalle condizioni generali: la volontà di combattere delle truppe ne può essere facilmente influenzata, e quindi condizionata. Se le Unità più ideologizzate possono farlo con valore e perfino con ferocia, è normale che quelle meno motivate tendano a evitare l’ingaggio.

Iraq, stato fallito
Alcuni ricorderanno ancora le immagini della Cnn, alla fine della prima guerra del Golfo, quando mostravano reparti interi dell’esercito regolare iracheno (non stiamo parlando della Guardia Repubblicana) con le braccia alzate arrendendosi in massa persino ai giornalisti.

Quando a Safwan (Bassora) sotto la tenda del cessate il fuoco il generale iracheno Ahmad dichiarava una lista di 41 prigionieri, il generale statunitense Norman Schwarzkopf rispondeva di averne più di 60 mila. Si trattava per lo più di soldati di confessione sciita (la Guardia Repubblicana era formata solo da sunniti) che Saddam Hussein aveva votato al sacrificio, isolandoli nelle trincee delle prime linee.

Quando un esercito sbanda e collassa, i motivi sono sempre molteplici: anche noi, purtroppo, ne abbiamo avuto in passato qualche esperienza. Può aver ricevuto ordini confusi, o non averli ricevuti affatto. Calcoli politici sbagliati possono aver influenzato la situazione.

Lo stato cui questo esercito appartiene può enumerarsi nella categoria degli stati falliti, o in via di fallimento. Le strutture istituzionali del paese, e quindi quelle delle forze armate, possono essere non idonee. L’addestramento può essere carente, o non mirato alla missione. La coesione e la disciplina possono essere lacunose e gli ufficiali non all’altezza. Gli armamenti potrebbero essere non idonei e inferiori a quelli dell’avversario. Le Unità potrebbero percepire ostilità, o quanto meno estraneità nel territorio, o avere la sensazione di mismanagement da parte delle autorità centrali.

Conseguenze ritiro Usa 
È probabile che, almeno nelle province in cui lo sfaldamento si è verificato, la maggior parte di questi fattori sussistano contemporaneamente, e non da oggi. Fatta salva, forse, l’inadeguatezza degli armamenti e dell’addestramento basico, di marca statunitense.

L’addestramento, tuttavia, in qualsiasi esercito produce i suoi effetti solamente se perfezionato con continuità e completato con i livelli superiori. In questo caso, si tratta di soldati di confessione prevalentemente sciita, arruolati dal premier Nouri al-Maliki, forse addestrati con eccessiva celerità dai militari Usa che, sotto la pressione del presidente Barack Obama e del Congresso, avevano fretta di completare il lavoro (our job is done) e tornarsene a casa.

Secondo alcuni analisti, dopo il rientro degli statunitensi l’attività addestrativa è rimasta paralizzata, fino quasi a cessare. Questo ha contribuito a peggiorare la situazione. In Afghanistan, a occhio e croce, si sta seguendo lo stesso percorso: pur di raggiungere nei tempi previsti i numeri concordati, può accadere che si chiuda un occhio sulla qualità. Non è escluso che tra qualche anno si possano vedere gli stessi risultati.

Risveglio sunnita
Nelle elezioni del 2009 gli Usa avevano sostenuto Al-Maliki nonostante – alla conta dei voti – la prova fosse stata vinta da Ayad Allawi, un laico a capo di un partito interconfessionale e interetnico. Il nuovo premier, autoritario e con lo sguardo rivolto all’Iran, ha deluso quelle minoranze sunnite che, ai tempi del generale Usa David Petraeus, lo avevano aiutato a combattere Al-Qaeda. Ha deluso anche Obama, che tardivamente piange sul latte versato.

Queste minoranze, nei cui ranghi militano numerosi ex appartenenti alla Guardia Repubblicana, si stanno strumentalmente unendo alle brigate internazionali degli jihadisti, cogliendo l’occasione per guidare una sorta di risveglio sunnita. Con le armi ci sanno fare più dell’esercito regolare, e, al momento, le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.

La situazione può essere ancora rimediabile, ma non senza il Governo regionale curdo (Krg) e l’Iran del presidente Hassan Rouhani. A chi conviene davvero?

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