29 Marzo 2024, venerdì
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Se l’Italia uscisse dall’euro

Secondo alcune forze politiche, l’Italia dovrebbe uscire dall’euro per affrontare più efficacemente le difficoltà economiche con cui si confronta. Questa opzione non è possibile in base al Trattato sull’Unione europea; è prevista (art. 50) invece la possibilità di recedere dall’Ue e quindi di uscire da tutte le sue politiche, incluso l’euro.

Critiche all’euro
Le critiche all’euro sono essenzialmente di due ordini: la rigidità del cambio – che penalizzerebbe le esportazioni italiane – e la disciplina di bilancio – che impone politiche di austerità ritenute da queste forze politiche pregiudizievoli per la crescita economica. 

Il ritorno alla moneta nazionale porterebbe sui mercati finanziari a un’immediata svalutazione rispetto al precedente tasso di cambio tra vecchie lire e euro. Questo è d’altra parte l’effetto che i critici della moneta unica dicono di ricercare per compensare la minore competitività dei prodotti nazionali sui mercati esteri. 

I prodotti italiani diventerebbero meno cari per l’importatore estero e quelli esteri più cari per l’importatore italiano: le esportazioni verrebbero incoraggiate e le importazioni scoraggiate. Tenuto conto che l’economia italiana è una economia di trasformazione e che Roma importa buona parte dei prodotti agricoli che consuma e la quasi totalità delle materie prime e dell’energia che impiega, la convenienza immediata dell’operazione è quanto meno dubbia. Chiari invece gli effetti negativi a più lungo termine.

Spirale di svalutazione/inflazione 
Ormai è dimostrato che la scarsa competitività dei prodotti italiani dipende da fattori strutturali (mancato adeguamento del sistema Paese alla piena concorrenza indotta in Europa dalla realizzazione del mercato unico a partire dalla fine degli anni ‘80 e ora nel mondo dalla globalizzazione) e non congiunturali. 

Se l’Italia continuasse a non correggere le debolezze strutturali del proprio sistema economico, alla prima svalutazione ne seguirebbero delle altre in una serie tendenzialmente infinita: l’inflazione importata con l’aumento del costo delle materie prime necessarie alle nostre produzioni annullerebbe rapidamente il vantaggio competitivo raggiunto con la prima svalutazione, producendo una spirale di svalutazione/inflazione/svalutazione. 

L’esperienza italiana delle svalutazioni competitive degli anni ’70, prima dell’ingresso nel Sistema monetario europeo, quando la stabilizzazione del cambio bloccò la spirale perversa svalutazione/inflazione, ha dimostrato che questa tesi è corretta. Tra l’altro allora abbiamo appreso che il tempo in cui si annulla il vantaggio competitivo della svalutazione è molto breve: non più di sei mesi. Nel frattempo salari e pensioni non aumentano così rapidamente come l’inflazione: il costo dell’ aggiustamento viene interamente sopportato dai percettori di redditi fissi. 

A questi svantaggi si aggiungerebbero certamente gli ostacoli non tariffari (e anche tariffari ) che i nostri competitori, soprattutto europei, non mancherebbero di opporre all’ingresso dei prodotti italiani sui loro mercati per contrastare le nostre svalutazioni competitive. L’effetto complessivo di queste misure e contromisure sarebbe un progressivo isolamento commerciale del nostro Paese. Basta andare indietro di non moltissimi anni per ricordare i contenziosi con la Francia sul vino e i prodotti tessili, contenziosi che non si sono tradotti in vere guerre commerciali grazie all’intervento della Commissione europea. 

Parametri di Maastricht 
Della drammatica situazione economica del nostro Paese è responsabile soprattutto la politica della spesa facile degli anni ’70 e ’80, quando l’indebitamento passò dal 40% del 1970 al 58% del 1980 e poi al 106% del 1992, momento in cui l’Italia accettò responsabilmente la disciplina di bilancio prevista dal Trattato di Maastricht.

I limiti massimi del 3% del rapporto debito/Pil e del 60% del rapporto indebitamento totale/Pil furono ritenuti allora sostenibili nel tempo dai negoziatori del Trattato e resi vincolanti in quel testo per mettere al riparo le economie di tutti i Paesi membri della zona euro da shock esterni che, colpendo un membro che fosse fuori regola e quindi sospettato dai mercati di non essere in grado di ripagare il debito contratto, si sarebbero ripercossi anche sugli altri Paesi. 

L’esperienza degli ultimi anni ha dimostrato che quel principio era corretto: la zona euro è entrata in crisi perché i cosiddetti “parametri di Maastricht“ non sono stati rispettati da diversi Paesi; la crisi si è propagata rapidamente dalla Grecia, che era il Paese più fragile, anche agli altri stati maggiormente indebitati o poco competitivi. 

Rischio default
L’aumento della spesa pubblica è invocata per finanziare la riduzione delle imposte, il potenziamento della protezione sociale, il miglioramento dell’educazione, l’ammodernamento delle infrastrutture. Si tratta di misure certamente molto utili per rimettere in moto l’economia; e anche fattibili in un Paese poco indebitato. 

Questo non è purtroppo il caso dell’Italia. Ai livelli attuali dell’indebitamento pubblico italiano, l’aumento del deficit e la conseguente perdita di fiducia dei mercati nella solvibilità dell’Italia, accompagnati per di più dall’abbandono dell’euro, produrrebbero un immediato rialzo dei tassi di interesse sui titoli in scadenza. 

Il costo crescente del nostro debito diverrebbe presto insopportabile per il Tesoro italiano e porterebbe alla necessità di dichiarare il default, come ha fatto l’Argentina: Paese che non è più uscito, dopo l’abbandono del cambio fisso col dollaro e la dichiarazione di default nel 2001, dalla spirale svalutazione/inflazione e non è più rientrato nel mercato internazionale dei capitali. 

Chi chiede l’uscita dell’Italia dall’euro propone il ritorno alla politica delle svalutazioni competitive degli anni ’70 e a quella della spesa facile degli anni ’70 e ’80. Non è questa la bacchetta magica per uscire dalla crisi. Purtroppo non esistono scorciatoie: l’unica strada è quella delle riforme che l’Ue e l’Ocse ci sollecitano da oltre vent’anni. 

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