29 Marzo 2024, venerdì
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Reati tributari: la tutela dei posti di lavoro dei dipendenti non integra lo stato di necessità

Si segnala una recente pronuncia della terza sezione penale con la quale i giudici di legittimità si sono pronunciati in merito alla configurabilità dellascriminante di cui all’art. 54 cod. pen. nell’ambito dei reati tributari di cui al D. Lgs. 74/2000.

Può la crisi economica del settore in cui opera la società dell’imputato scriminare – attraverso il richiamo allo stato di necessità derivante dall’esigenza di tutelare il posto di lavoro dei dipendenti – l’omesso versamento di ritenute alla fonte (art. 10-bis D. Lgs. 74/2000) e l’omesso versamento IVA (art. 10-ter D. Lgs. 74/2000)?
Ad avviso del ricorrente – che nella vicenda proponeva ricorso in Cassazione avverso l’ordinanza che aveva rigettato la sua richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo per equivalente in relazione ai citati reati – la riduzione del fatturato di circa il 70% fra il 2008 e il 2009, e il fatto che la società fosse stata costretta a pagare gli istituti di credito e i fornitori (che minacciavano di presentare istanza di fallimento) giustificherebbe l’applicabilità nel caso di specie della esimente dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., che troverebbe applicazione in relazione all’inviolabilità del diritto al lavoro, la cui perdita comporterebbe, a livello morale, sociale e materiale, un danno grave alla persona.
In sostanza, secondo la tesi difensiva, l’esigenza di salvaguardare i posti di lavoro dei dipendenti integrerebbe la circostanza scriminante dello stato di necessità.

Di diverso avviso si sono mostrati i giudici della Cassazione.
Nel ritenere infondato il motivo di ricorso la Corte prende le mosse dalla struttura del reato di cui all’art. 10-bis D. Lgs. 74/2000 (con la precisazione, tuttavia, che analoghe considerazioni valgono anche con riferimento al reato di cui all’art. 10-ter D. Lgs. 74/2000): si tratta di un reato omissivo proprio istantaneo che si consuma in conseguenza del mancato compimento dell’azione dovuta, costituita dall’omesso versamento, entro il termine fissato, delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti dallo stesso contribuente.
I giudici si soffermano poi sul diverso termine previsto dalla norma in quesione rispetto a quella fiscale: il termine previsto dalla norma penale – osservano i giudici – non coincide con quello richiesto dalla normativa fiscale per l’adempimento dell’obbligazione tributaria, ma è ad esso successivo, avendo il legislatore ritenuto di lasciare al contribuente un lasso di tempo per poter sanare il proprio debito tributario prima che la condotta omissiva integri la fattispecie penalmente rilevante. Mentre la normativa tributaria fissa quale termine per il versamento all’erario delle ritenute effettuate il giorno sedici del mese successivo a quello in cui le stesse sono state operate da parte del sostituto (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 3 e 8), sanzionando l’omissione in via amministrativa in base al D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, comma 1, la normativa penale (D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-bis), si riferisce complessivamente a tutte le ritenute operate nell’anno di imposta e stabilisce, quale termine di adempimento penalmente rilevante, quello del 31 ottobre dell’anno successivo.
La situazione di colui che non versa l’imposta si risolve, di regola, in una condotta, cosciente e volontaria, la quale, in modo progressivo, si articola, in un primo momento, con il mancato accantonamento delle somme trattenute; successivamente con l’omesso versamento mensile secondo le cadenze previste dalla normativa tributaria; ed infine con la prosecuzione della condotta omissiva fino al termine ultimo fissato dalla norma penale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine lungo, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all’esigenza predetta.

Sebbene non possa escludersi, in astratto, che siano possibili casi nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria, tuttavia, è necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che dimostrino anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto.
Occorre, in altri termini, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (v. sul punto Cass. Pen., Sez. III, 9 ottobre 2013, n. 5905 secondo cui “in caso di omesso versamento di ritenute ex art. 10-bis, D.Lgs. n. 74 del 2000 non si deve escludere che l’omissione derivi da una forza maggiore che può configurarsi anche nella imprevista e imprevedibile indisponibilità di denaro non correlata alla condotta gestionale del sostituto. È così escluso il dolo del sostituto-datore di lavoro in grado di dimostrare che la crisi di liquidità non deriva dalla scelta “di non far debitamente fronte” all’obbligo di accantonamento delle somme dovute all’erario“).

Quanto alla invocabilità dell’art. 54 cod. pen. – conclude la Corte – il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per l’esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti non è di per sè idoneo a configurare la circostanza scriminante dello stato di necessità, specificamente invocata dalla difesa nel caso di specie.
L’art. 54 cod. pen. esclude, infatti, la punibilità per chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sè o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona; laddove, con l’espressione “danno grave alla persona”, il legislatore ha inteso riferirsi ai soli beni morali e materiali che costituiscono l’essenza stessa dell’essere umano, come la vita, l’integrità fisica (comprensiva del diritto alla salute), la libertà morale e sessuale, il nome, l’onore, ma non anche quei beni che, pur essendo costituzionalmente rilevanti, contribuiscono al completamento ed allo sviluppo della persona umana.
Ne consegue che, pur dovendosi affermare che il diritto al lavoro è costituzionalmente garantito e che il lavoro contribuisce alla formazione ed allo sviluppo della persona umana, deve escludersi che la sua perdita costituisca in quanto tale un danno grave alla persona sotto il profilo dell’art. 54 cod. pen. (sez. 1, 23 gennaio 1997, n. 4323, rv. 207434).

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