28 Marzo 2024, giovedì
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Aziende e licenziamenti collettivi: la parola all’avvocato

Quando si parla di licenziamento collettivo in azienda?
Per la legge i licenziamenti collettivi sono definiti dal numero e dalla collocazione dei lavoratori coinvolti: più di 4 nell’arco di 120 giorni e nella stessa provincia. Parliamo ovviamente di licenziamenti per ragioni oggettive (riduzione, trasformazione o cessazione di attività). I licenziamenti per motivi disciplinari non contano. Per numeri inferiori si applicano le norme sui licenziamenti individuali, anche se i lavoratori licenziati sono più di uno. Per i licenziamenti collettivi invece c’è una normativa specifica, che si applica però solo per le aziende che occupano più di 15 dipendenti. Si tratta di una disciplina introdotta nel 1991, in applicazione di una direttiva europea del 1975. Entrambe le normative, quella europea e quella nazionale, hanno poi nel tempo subito numerosi aggiustamenti. I capisaldi sono comunque due: in primo luogo, il licenziamento collettivo richiede una preventiva procedura di informazione e consultazione sindacale, con tempi prestabiliti e requisiti rigorosi; i lavoratori da licenziare, poi, devono essere scelti in base a criteri oggettivi e ben determinati.
Quali criteri per la scelta dei lavoratori da licenziare deve applicare il datore di lavoro?
La legge dà la possibilità di concordare con il sindacato i criteri di scelta, a dimostrazione della grande importanza attribuita al coinvolgimento sindacale in questo genere di procedure. Nella pratica i criteri più “gettonati” negli accordi sindacali sono quelli della volontarietà e della vicinanza alla pensione. Se non si raggiunge un accordo, si devono applicare, in concorso tra loro, i tre criteri previsti in via sussidiaria dalla legge: anzianità, carichi di famiglia, esigenze tecnico-produttive e organizzative. Quello della comparazione tra i lavoratori per la scelta di quelli da licenziare è certamente l’aspetto più delicato e difficile di una procedura di licenziamento collettivo. Si tratta anzitutto di individuare l’ambito nel quale effettuare la comparazione: l’intera azienda o solo le unità o i reparti interessati dalla ristrutturazione? Sul punto la giurisprudenza non è univoca, e si richiede dunque un’attenta valutazione della situazione concreta, soprattutto nelle aziende complesse di grandi dimensioni. Poi si tratta di stilare delle vere e proprie graduatorie, applicando i criteri concordati o quelli di legge, e stabilendo il peso da attribuire a ciascun criterio.
Quando il licenziamento collettivo è illegittimo?
I criteri di valutazione della legittimità del licenziamento collettivo sono molto diversi da quelli del licenziamento individuale. Per quest’ultimo il giudice deve valutare la sussistenza della giusta causa o del giustificato motivo. C’è dunque un controllo a posteriori del giudice sulle ragioni del licenziamento. Nel licenziamento collettivo il controllo diventa preventivo ed è affidato al sindacato, che deve essere informato e consultato prima di intimare i licenziamenti, con l’obiettivo (incentivato ma non obbligatorio) di raggiungere un accordo sulla gestione degli esuberi. Il controllo a valle del giudice naturalmente ci può sempre essere: si esercita però non sulle ragioni della riduzione del personale, ma sul rispetto della procedura e sulla corretta applicazione dei criteri di scelta. Quindi, se viene correttamente attuata la procedura di informazione e consultazione sindacale, il licenziamento collettivo non è mai illegittimo: illegittima può essere invece la scelta di un singolo lavoratore piuttosto che di un altro, se sono violati i criteri pattuiti nell’accordo sindacale o quelli previsti dalla legge in mancanza di accordo.
Che novità ha introdotto la c.d Riforma Fornero nella disciplina sui licenziamenti collettivi?
La riforma Fornero ha anzitutto previsto che eventuali vizi della comunicazione informativa iniziale alle organizzazioni sindacali, con la quale si apre la procedura, possano essere sanati dall’accordo sindacale concluso nell’ambito della stessa. Si tratta di una innovazione importante. Sinora il singolo lavoratore poteva ottenere dal giudice l’annullamento del licenziamento e la reintegrazione per incompletezza, genericità o carenza di informazioni della comunicazione iniziale, anche se il sindacato non aveva avuto nulla da eccepire. Ora, se il sindacato da atto della correttezza della procedura, al singolo sono precluse questo tipo di censure. Sempre nell’ottica dell’attenuazione del rigore formale (o meglio, in questo caso, formalistico della procedura), è stato previsto un termine di sette giorni dai licenziamenti per effettuare la comunicazione finale obbligatoria agli enti e al sindacato dell’elenco dei lavoratori licenziati e delle modalità di applicazione dei criteri di scelta. Prima tale comunicazione andava effettuata “contestualmente” alla intimazione dei licenziamenti. Con la conseguenza che molti licenziamenti venivano dichiarati illegittimi per il ritardo anche di un solo giorno nell’invio della comunicazione. La modifica è dunque più che opportuna. Cambia poi il sistema sanzionatorio, in coerenza con le modifiche dell’art. 18 operate dalla riforma.
Appunto. Quali sanzioni sono previste ora per il datore di lavoro a seguito di licenziamento illegittimo?
Anche per i licenziamenti collettivi la sanzione non è più solo quella della reintegrazione del lavoratore. Le sanzioni sono, come per il licenziamento individuale, diversificate a seconda dei vizi riscontrati. In caso di violazione delle procedure (non sanata dall’accordo sindacale), la sanzione è ora puramente economica: da 12 a 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Per la determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti il giudice dovrà tener conto dell’anzianità del lavoratore, del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti e anche delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione. Se invece sono violati i criteri di scelta, la sanzione resta la reintegrazione nel posto di lavoro, ma il risarcimento del danno che l’accompagna è limitato nel massimo a 12 mensilità. Rimane il regime precedente (reintegrazione e risarcimento illimitato) in caso di licenziamento intimato senza forma scritta, ma si tratta ovviamente di ipotesi assai improbabile. Eliminato dunque l’incubo delle reintegrazioni di massa per vizi procedurali, resta alta l’attenzione sulla corretta applicazione dei criteri di scelta. E’ qui infatti che si annidano i rischi maggiori per il datore di lavoro nelle procedure di licenziamento collettivo.
Quali sono gli orientamenti recenti della giurisprudenza in materia di licenziamenti collettivi?
A differenza di quanto accade per la nuova disciplina dei licenziamenti individuali, le modifiche introdotte dalla riforma Fornero per i licenziamenti collettivi non dovrebbero portare ad arroventati dibattiti giurisprudenziali. Si tratta di modifiche limitate (anche se di importanza nient’affatto trascurabile) e tutto sommato abbastanza chiare. La giurisprudenza continuerà verosimilmente nella linea sin qui seguita di massimo rigore nella valutazione del rispetto degli obblighi procedurali (con applicazione però della mera sanzione economica) e della corretta applicazione dei criteri di scelta. Linea che sostanzialmente controbilancia l’insindacabilità in sede giudiziaria della valutazione imprenditoriale sull’opportunità di procedere alla riduzione del personale.
Una importante novità giurisprudenziale in materia (foriera di rilevanti sviluppi futuri) viene invece da una recentissima decisione della Corte di giustizia europea (13 febbraio 2014 – Commissione europea vs Repubblica Italiana). La Corte ha dichiarato che l’Italia, avendo escluso la categoria dei dirigenti dall’ambito di applicazione delle procedure sindacali di licenziamento collettivo, ha violato le direttive comunitarie in materia, che vanno applicate a tutti i dipendenti, senza distinzione di categoria. La legge italiana invece esclude espressamente i dirigenti dall’applicazione delle norme in materia di licenziamento collettivo. Il che significa che i licenziamenti dei dirigenti non sono computati nel numero che fa scattare l’obbligo della procedura e possono essere intimati al di fuori della procedura medesima. Ora la situazione si presenta quanto mai incerta. E non solo perché ci si deve aspettare una modifica legislativa che si adegui alla decisione della Corte. Nel frattempo infatti qualche giudice potrebbe disapplicare la norma che esclude i dirigenti dalle procedure di licenziamento collettivo, in quanto in contrasto con l’ordinamento comunitario. Con conseguenze non da poco nelle aziende, dove è normale che in occasione di riduzioni del personale si proceda anche al licenziamento di figure dirigenziali, che finora però viaggiava su un binario parallelo, del tutto indipendente dalla procedura sindacale. Una complicazione in più, in vicende che semplici non sono mai.

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